[Busan 2013. Foto Rb]
Lee Jin Min, Pachinko. New York, Barnes
and Noble, 2017 (Edizione Kindle)
Il romanzo, in contrasto con le
determinazioni temporali precise del resto dell’opera, inizia in una data
imprecisa, “at the turn of the [20th] century”, su Yeongdo, distretto-isola di Busan,
nella parte meridionale della Corea del Sud, allora unificata e sotto la dominazione
coloniale giapponese dal 1910, data cruciale che appare nella seconda pagina.
Sposatasi per povertà con un pescatore dalle labbra sfigurate per nascita, la
capostipite di questa saga familiare e sociale, dopo la morte del marito
organizza una pensione familiare. La figlia Sunja viene sedotta da Hansu, un
coreano nipponizzato e benestante, che poco per volta scopriamo appartenere
alla yakuza, dalle cui attività
proviene il suo benessere. Sebbene per tutta la vita vegli a modo suo, per lo
più da lontano, su Sunja, essendo egli sposato, lei rifiuta di divenire la sua
amante e preferisce una vita di stenti. Riscattata agli occhi della comunità da
un pastore protestante, Isak, che, innamorato di lei la sposa e dà una famiglia
al figlio illegittimo, la vita continua a partire dagli anni Trenta in
Giappone, ove raggiungono Joseb, il fratello di Isak, sposato e senza figli. Si
dipana una storia di questa e delle successive generazioni, in cui si
susseguono personaggi opposti: donne virtuose e donne che si perdono nel
mercato del sesso, uomini d’azione e intellettuali, vincenti e perdenti,
oppressori e oppressi. Fino all’ultima generazione, con conclusione nel 1989:
nelle ultime pagine, con andamento circolare, Sunja accudisce il sepolcro di Isak.
Il principale ambiente sociale è
quello della comunità coreana del Giappone, dunque non stupisce che il discorso
sociologico del romanzo si articoli soprattutto sulla difficoltà di
accettazione dei coreani da parte dei giapponesi, dapprima per pregiudizi
coloniali e in seguito per difficoltà
generale della società giapponese, a parere dell’autrice, a integrate gli
stranieri, o, come rivela Lee in un’intervista “You could become a Japanese
citizen today after being there for four or five generations but no one will
ever think of you as Japanese. In order
to be considered Japanese, you have to be fully by blood Japanese” [1]. Nel romanzo: “Japan will
never change. It will never integrate gaijin”;
e:
“Zainichi,
a term used often to describe Korean Japanese people who were either migrants
from the colonial era or their descendants.
Some Koreans in Japan do not want to be called Zainichi Korean because the term means literally ‘foreign resident staying
in Japan. There are many Koreans who are now Japanese citizens, although this
option to naturalize is not an easy one. There are also many who have
intermarried with the Japanese or who have partial Korean heritage. Sadly,
there is a long and troubled history of legal and natural discrimination
against the Koreans in Japan and those who have partial ethnic Korean
background”.
Ciò non significa che la
rappresentazione risulti dogmatica, è al contrario dotata di parecchie
sfumature, con giapponesi aperti verso i coreani al punto da mettere a repentaglio
la propria reputazione sociale per costruire una famiglia con loro; e coreani
che puntano all’integrazione completa acquisendo la cittadinanza, oppure, più
spesso, a distinguersi in modo che una posizione di preminenza li renda meno vulnerabili.
Si tratta dunque, in larga
misura, di un romanzo sull’identità
La posizione femminile è un altro
elemento ben evidenziato: dall’idea che “a woman’s life is endless work and
suffering” a quella più autonoma e asseverativa delle ultime generazioni
rappresentate nel libro.
Si tratta anche di identità fondata
sulle differenze di classe e religiose. Riguardo queste ultime, i fondatori
della genealogia sono di religione protestante; e l’operato dei missionari
tanto in Corea che in Giappone è raffigurato in luce positiva.
In un’intervista in appendice al
volume, Lee dichiara interesse, oltre che per autori della modernità quali Faulkner
e Virginia Woolf, per gli scrittori dell’Ottocento: “I adore nineteenth writers
Bronte, Eliot, Trollope, Dickens, Flaubert, Tolstoy, and Balzac”. Anche il punto di vista narrativo viene ascritto al
fatto che “in Western literature, omniscent narration was the popular style in
the nineteenth century, and it is my favorite point of view for community
narratives”.
Il destino, articolato ora nelle
convinzioni buddhiste di alcuni personaggi, ora nell’idea cristiana di “divine
design”, costituisce uno dei due elementi che muovono le azioni e le scelte,
accanto al libero arbitrio, o, per restare nella metafora dominante del titolo
del romanzo, nell’alternanza di caso e causalità del gioco, come nel pachinko, il passatempo a scommesse, ben
assestato in Giappone, e cui si dedicano, arrivandovi per strade autonome l’una
dall’altra, i due fratelli Solomon e Noa.
Il romanzo ha una carica emotiva
notevole pur senza scadere nel sentimentalismo trito. Nell’intervista appena citata, l’autrice dichiara: “I think my themes are forgiveness,
loss, desire, aspiration, failure, duty, and faith”.
NOTE
[Roberto Bertoni]