[‘What key to that other city?” (Dublin
2016). Foto Rb]
Antonio Moresco, L’addio. Firenze e Milano, Giunti, 2016
Nell’introduzione,
l’autore presenta il romanzo come il testo con cui dà l’addio alla narrativa,
un silenzio futuro, se mai sarà tale, in ogni caso una scrittura presente,
nati, l’uno e l’altra, dal nucleo di motivazione del romanzo, innestato su un
disagio sociale:
“Non riesco più a sopportare i
rapporti umani così come sono configurati in questa epoca, dove ogni cosa viene
immiserita e rimpicciolita, anche l’elezione, l’amicizia e l’amore, dove ogni
anelito si trasforma in delusione, ferita e perdita irreparabile. Non riesco
più a sopportare il cinismo dominante, il piccolo cabotaggio esistenziale, la
ristrettezza di orizzonti, la mancanza di grandezza, di sentimento, di libertà,
di invenzione” (p. 5).
La rappresentazione
allegorica, nelle pagine di narrativa che compongono il resto del volume, è
quella di una “città dei morti” senza tempo e con parametri di esistenza e di
spazio diversi, eppure non dissimili in tutto dal mondo dei vivi, in cui un
investigatore, denominato D’Arco, indaga sul canto dei bambini, iniziato all’improvviso
e provocato da lutto per le sevizie che l’infanzia subisce con sempre maggiore
frequenza: “cantano ogni volta che viene ucciso un bambino nella città dei
vivi” (p. 44). Il detective si reca pertanto dai vivi accompagnato da una
guida, un bambino che non parla, ma scrive messaggi a mano.
L’indagine si svolge con
vari colpi di scena. Metaletterariamente, la voce narrante, cui si sovrappone
l’autore, dichiara che i lettori non troveranno “le descrizioni minuziose e
raccapriccianti degli orrori che ho visto”, come invece succede in altri libri.
Lo scopo è etico: “Vi mostrerò solo quel poco che è necessario per rivelarvi
tutto il male che c’è nel mondo” (p. 71).
Con varie parodie di
sparatorie, tiri di balestra e altri dettagli in qualche modo connessi coi
moduli del thriller, l’indagine conduce al responsabile sommo, il capo dei
malavitosi, l’“Uomo di luce” (p. 172), che rivela di
avere attratto egli stesso D’Arco nella città dei vivi, in quanto il detective,
dovendo sconfiggere il male, è la ragione delle azioni delittuose, il nemico
necessario alla perpetrazione dei reati.
Nel finale si torna nella
città dei morti.
C’è un’inversione
dantesca: il viaggio del protagonista di Moresco nella “città dolente” (Inferno, III.1) avviene verso il mondo
di qua, non quello di là. Del resto, nel precedente romanzo di Moresco, Gli increati (Milano, Mondadori, 2016) si leggeva: “Finora solo qualche grande poeta antico ci aveva raccontato la discesa di eroi vivi nel regno dei morti, o aveva preteso di essere andato di persona, da vivo, nell’aldilà e di esserne poi ritornato. Io sono il primo che vi racconto, da morto, quello che succede nel regno dei morti”. Magari non il primo, data la vasta presenza di storie di fantasmi, tra le altre, ma indubbiamente una prospettiva dotata di originalità per il meccanismo retorico con cui viene presentata.
Si deve poi supporre una
continuità metafisica tra vita e morte, anche se tale punto non viene mai
dichiarato.
Qualche riferimento si
potrebbe fare al Manganelli di Dall’Inferno,
per la coesistenza di opposte dimensioni e il viaggio medesimo nella sfera
esistenziale allegorizzata dall’oltreterra, per esempio:
“E anche adesso che sono qui
nella città dei morti e vi sto raccontando cosa è successo prima e cosa è
successo dopo… sto rivivendo qui la mia morte o sto invece morendo su quella
macchina guidata da un uomo che non so chi è e del quale non sono riuscito a
vedere il volto? Sto rivivendo la mia morte o sto rivivendo la mia vita?” (p.
224).
Cenni calviniani non
troppo mascherati, in particolare, come in Se
una notte d’inverno un viaggiatore…: “E anche questo racconto dove sta
andando? Sta andando verso la fine o verso l’inizio?” (p. 225).
Il motivo delle due città
è proprio della dicotomia di male e bene della letteratura cristiana (si veda
Agostino con la Città Celeste contrapposta alla Città Terrena); come pure della
fantascienza (in questo secolo, cfr. tra la narrativa China Miéville, The City and the City, 2009, e nel cinema Juan
Solanas, Upside Down, 2012).
[Roberto Bertoni]