“Se dovessero domandarmi
la genesi dei miei racconti, non potrei rispondere che citando un passo di
Thomas Mann nel Doctor Faustus: “La natura stessa è troppo piena di
produzioni a sorpresa che danno nel magico, di capricci analitici, di allusioni
semivelate e accennanti stranamente a un mondo incerto perché i devoti nella
loro pudica moderazione, non debbono scoprire in queste occupazioni una
temeraria trasgressione”[1].
Così nel suo Diario,
Libero De Libero spiega l’origine de Il guanto nero, uno dei suoi libri
meno noti, scritto nel 1934 (fatta eccezione per la Lunghissima notte,
che fa da introduzione al Taccuino orientale di Fabrizio Clerici, che è
del ’55) e dato alle stampe, quasi vent’anni dopo, nel novembre del 1959. Non
del lirico puro, come amava definirlo la critica ufficiale, ma del De
Libero narratore, autore di romanzi quali Amore e Morte (1951) e Camera
oscura (1952), e di raccolte di racconti come Malumore (1969),
vorrei discorrere. Libero De Libero si sa, nasce poeta, è tra i maggiori
esponenti dell’Ermetismo degli anni Trenta, autore di meravigliose
sillogi, fra le quali Scempio e lusinga (1950-1956), Di brace in
brace (1956-1970), con cui si aggiudica nel ‘71 il Premio Viareggio
nella sezione poesia, e Circostanze (1971-1975). Influenzata agli inizi
da Ungaretti, la sua poesia, che risente fortemente della visionarietà di
Quasimodo - basti pensare a Solstizio del 1934 - si allontana poi dalla
scuola ermetica per giungere ad altri lidi: de Libero diviene, come lo
definisce Gian Franco Contini, “tra i migliori rappresentanti di un vero e
proprio surrealismo italiano”. Ed è di quest’ultima esperienza artistica che
vorrei parlare, entrando in punta di penna nei racconti de Il Guanto nero.
Pubblicato dal Sodalizio del Libro a Venezia, il volume, costituito da
ventisei racconti brevi e da cinque illustrazioni di Fabrizio Clerici, accoglie
storie non molto lunghe, con poca trama, privi del cosiddetto messaggio che
a tutti i costi si vuole trovare nella narrativa contemporanea[2] scrive Anna Maria Scarpati nel volume
monografico Libero de Libero. Effettivamente, in questi raccontini
grandi avvenimenti non ce ne sono, proprio come nella narrativa buzzatiana,
l’autore lavora fuori dalla pagina, lasciando al lettore il corroborante
disturbo di riflettere su quanto ha letto.
Tra il De Libero poeta e
il De Libero prosatore lo scarto è notevole. Dimenticate il sognatore d’estate,
l’aedo mediterraneo, le piante, gli alberi, i fiori profumati, la pianura che
odora d’arancio, il verde meraviglioso delle colline, l’essenza dei pini al
mattino, le vuote speranze, i ricordi mai abbandonati, le occasioni perdute…
l’immagine dell’amata che si chiama Ciociaria, la donna di pelle fina,
protagonista della poesia di De Libero. Ne Il guanto nero tutto appare
nebuloso, i paesaggi sono indefiniti quanto i personaggi, che non hanno
identità, figurine appena abbozzate, che abbandonano l’oscurità giusto il tempo
di mostrare al lettore un lampo di vita. Lo sfondo - torno a ripetere - è
spettrale, tetro, claustrofobico addirittura in alcune prose. È lo scenario
degli incubi. Per Giorgio Vigolo fu coniata l’etichetta di “barocco nero”[3], espressione che designava la capacità di
fotografare le atmosfere lugubri e luttuose, e che potrebbe andar bene anche
per Libero De Libero. Lo stesso Enrico Falqui scrisse, infatti, che la
narrativa dello scrittore originario di Fondi sovrabbondava di elementi
macabri, soprattutto nella raccolta de Il guanto nero. De Libero
registra sulla pagina le angosce, le pulsioni e le paure che popolano l’area
più oscura di noi stessi. Queste squisite prose di De Libero ci danno la
misura della sua arte intesa a sottolineare quel sorprendente inconscio che è
in noi[4]. Storie di
gente maligna, violenza gratuita, atti depravati e fuori misura, che
disorientano il lettore, fino a stordirlo e spaventarlo. Come negli horror più
feroci, chi legge, partecipa all’ansia del protagonista senza storia, senza
passato o futuro, senza identità[5]; arriva
perfino a immedesimarsi in lui perché i racconti di De Libero prendono avvio da
situazioni quotidiane: un medico prende la corriera per recarsi in paese, una
ragazza esce per la prima volta da sola, un uomo perbene si reca ad una festa
in casa di amici. Quel che atterrisce ne Il guanto nero è l’irruzione
della crudeltà, proprio lì dove non la immagineresti. Da questo sbigottimento
deriva quella che, a proposito della narrativa di Dino Buzzati, veniva chiamata
“sorpresa a rovescio”. Difatti, se si esclude un paio di racconti, si può dire
che lo scrittore ciociaro non imbastisca il discorso giocando sulla suspense.
Egli non crea quello stato di tensione dovuto al succedersi di eventi
sfavorevoli e complicati, tutt’altro. Conosce il lettore e le sue debolezze, sa
dove pungerlo e così lascia esplodere la violenza inaudita nel momento della storia,
in cui mai avresti pensato di trovarla. Egli in questi racconti mette in fila
come soldatini tutte le nostre ossessioni: il timore di essere inseguiti nel
cuore della notte senza ragione, il dubbio di essere scoperti e giudicati per
una colpa commessa e in ultimo, la paura delle paure, la morte, quella che può
cogliere di sorpresa come una serpe strisciante. Nell’introduzione leggiamo:
“Nella vita di ognuno c’è una zona in cui la realtà sfoca nell’incubo o
s’infrange nello straordinario. […] Poiché, sì, le favole sono belle,
attraenti, ma guai se non se ne penetra il significato”[6].
Il linguaggio asciutto,
essenziale e scheletrico riduce al minimo il gap fra parola e azione, anche
perché l’autore vuole riprodurre la l’automatismo naturale del mondo onirico.
Grossomodo, si può affermare che nell’accostarsi ad un certo tipo di narrativa,
quella appunto a cui appartiene Il guanto nero, il lettore si involve,
regredisce, fino a tornare all’infanzia, la stagione, durante la quale si crede
di scorgere al buio un mostro, pronto a balzare sul letto. Giacché si è parlato
di infanzia, mi pare opportuno riflettere sul perché questi racconti de Il
guanto nero non siano da ritenersi delle fiabe in senso stretto. Come
osserva Silvana Cirillo:
“E anche dove il racconto
piega più esplicitamente sulla fiaba, con protagonista la principessa ricca,
come habitat il vecchio castello, come personaggi tanti animali parlanti e mille
topi incantati dalla musica, come ne La principessa dei topi, esso
assume subito una piega inquietante, ove l’assurdo prende il posto del
favoloso”[7].
In effetti, le pagine di
De Libero trasudano un doloroso senso di morte, che mal si sposa con la
narrativa per l’infanzia. Vero è, che le favole dei fratelli Grimm e di
Andersen, tanto per citare i più famosi, non risparmiavano ai giovani lettori
scene brutali e violente, assai lontane da quelle, cui siamo abituati per via
del riadattamento cinematografico operato da Walt Disney. Si pensi soltanto
alla sirenetta, la quale non solo alla fine della storia muore, ma, che,
disposta a tutto pur di avere le gambe, accetta che la strega del mare le tagli
la lingua. I racconti di De Libero non possono essere definiti delle fiabe per
due motivi, benché apparentemente ne posseggano le fattezze: in primis perché a
far da padrone non è la magia, ma l’assurdo. La potenza del surrealismo risiede
proprio in ciò: questi scrittori rinunciano alle fate, agli orchi e agli gnomi,
perché hanno compreso che il meraviglioso risiede ovunque. La bacchetta magica
non serve più, ad affabulatori come Savinio, Delfini o De Libero basta la penna.
In secondo luogo perché manca il lieto fine, a cui ci ha abituati Cenerentola
&Co. Come scrive Bruno Bettelheim: “Le fiabe assicurano ai bambini che
alla fine potranno avere la meglio sul gigante: vale a dire che possono
diventare grandi come il gigante e acquisire gli stessi poteri. Sono queste le
possenti speranze che ci rendono uomini”[8].
Ora è chiaro che ne Il
guanto nero, il discorso è un altro. Innanzitutto De Libero non si atteggia
a mo’ di genitore (non ci dimentichiamo, infatti, che la letteratura
surrealista è “femminile”, nel senso che è accogliente e protesa al
cambiamento, e che di padri ingombranti non sa che farsene!), è invece più
simile al bambino, che, tra l’altro, è insieme protagonista e oggetto conteso
del quinto racconto intitolato Senza parole. Qualcuno potrebbe obiettare
che molte fiabe cominciano in modo realistico. Si pensi ad Hansel e Gretel ad
esempio. In apertura troviamo due genitori poveri spaventati circa il futuro
dei propri figli. Un attacco che tuona, oggi, attuale più che mai, e che
potrebbe comparire su qualunque giornale. Tuttavia, a scansare ogni dubbio
resta il fatto che nella fiaba la realtà quotidiana sia continuamente permeata
di magia e incanto, aspetti entrambi assenti nei raccontini di De Libero, che
ne conserva invece soltanto alcuni immagini, i più simbolici, forse, come la
stanza segreta, che cela, in realtà, un cadavere come leggiamo nel racconto Brutta
gita, e che richiama alla memoria la camera di Barbablù, dove non bisognava
entrare, perché nascondeva i corpi delle donne assassinate dall’uomo: “Coperto
di fiori, giaceva il cadavere di un vecchio, e intorno gli vacillava la stanca
luce del cero. Come nei sogni Alessio non ebbe la forza di gridare”.
Termina così la giornata
del protagonista, il quale vedendosi negata l’ospitalità dell’amico Steno, è
costretto a dormire nella cella spartana di una chiesa. Scoperto un morto in
putrefazione nelle vicinanze, decide di gettarsi in un angolo ad attendere
l’alba. Qui, come anche in Camera d’albergo, la domanda lecita è una: è
tutto vero o il protagonista sta sognando?
Del genere fiabesco,
però, una qualche altra traccia vi è rimasta. Si guardi soltanto al racconto La
Specchiera, in cui la protagonista Nice, la più giovane zitella della
famiglia composta da quattro sorelle ormai attempate e nubili, chiusa in casa,
novella Dorian Gray, ha come unico amico uno specchio, nella cui
immagine ella assiste impotente allo scorrere inesorabile degli anni, di cui
ella non ha fatto tesoro. Qui, come altrove nella raccolta, De Libero è come se
volesse dire che non è il tempo ad essere nemico dell’uomo, ma è quest’ultimo
ad essere il più grande nemico del tempo. La specchiera, protagonista
dell’omonimo racconto, richiama alla mente sia l’opera del ’22 di Massimo
Bontempelli si Through the Looking-Glass, and What Alice Found There (1871)
di Lewis Carroll, che tanto era piaciuto agli scrittori surrealisti, ma anche
il demoniaco parlante specchio della fiaba di Biancaneve dei fratelli
Grimm.
Ai limiti del
perturbante, vicino alla narrativa di Franz Kafka, in particolar modo de Il
processo, è invece il racconto, che apre il libro, Sentenza, dove i
personaggi non hanno nome, ma soltanto sostantivi che ne indicano i rapporti di
parentela. Dietro all’immaginario banco degli imputati, vi è l’adultera, la
quale verrà condannata dal suocero ad un esilio forzato.
De Il guanto nero,
il racconto certamente più agghiacciante è però Il forestiero, in cui il
protagonista, un medico rispettabile e conosciuto da tutti, sentendo dei rumori
in un’abitazione di sua proprietà, decide di entrarvi. Trova sul tavolo della
cucina un paio di grosse forbici, le impugna e con impeto entra nella stanza,
dove un uomo, il forestiero appunto, sta abusando di una ragazza indifesa. Lo
stupro, che compare anche in alcuni raccontini di Tommaso Landolfi, diventa la
massima espressione della sopraffazione. La stessa casa, che psicanaliticamente
richiama all’utero materno, diviene teatro dell’orrido, creando altresì una
struttura a scatola cinese, che volutamente riproduce alcuni degli incubi più
comuni: il terrore di ritrovarsi un estraneo nella propria dimora, la paura di
subire una violenza, l’angoscia di essersi macchiati inconsapevolmente di un
delitto.
Ogni lettore assolve lo
stimato medico, che, tuttavia, da vittima è divenuto carnefice a seguito delle
sfavorevoli circostanze, proprio come nel celebre romanzo di Dostoevskij Delitto
e Castigo. Per terminare vorrei analizzare il racconto che dà nome alla
raccolta Il guanto nero, in cui il protagonista, dopo essersi recato ad
una festa di una sua cara amica benestante, si ritrova a dover discutere con un
odioso maggiordomo, che gli nega l’ingresso in villa, poiché sprovvisto di
invito. In realtà tutta la situazione è di per sé strana: l’ambiente appare
oscuro e sconosciuto all’uomo, che avvilito e basito al contempo, accetta di
entrare in sala non da ospite, ma da cameriere. L’atmosfera ricorda certamente
i Sessanta racconti di Dino Buzzati, pubblicati nel 1958, in particolar
modo la vicenda dei Sette Piani. Di squisito sapore buzzatiano è anche
il titolo di un’altra novella de Il guanto nero: Il presente è
un’attesa, che pare rievocare il clima di rassegnazione e angoscia del
romanzo Il deserto dei tartari.
Questo si potrebbe dire
dunque: lo sgomento dell’oscurità lascia spazio alla fiducia nel mattino
successivo. Potremmo leggere, infatti, Il guanto nero come un’angosciosa
lunghissima notte.
[3] GIUSEPPE LUPO, Poesia come pittura:
De Libero e la cultura romana, 1930-1940, Roma, Vita e Pensiero, 2002.