21/12/16

Enrica Maria Ferrara, CALVINO, ARIOSTO E I CENTENARI


Correva l’anno 1974. Calvino doveva recarsi a Dublino in occasione del quinto centenario della nascita di Ariosto e scriveva a Guido Almansi quanto segue:

Ho riflettuto al mio programma di Dublino, e ho cominciato a domandarmi come faccio a preparare tante (quante?) conferenze e sono stato preso dal panico. L’unica conferenza che ho pronta è una su Manzoni [...] Potrei presentare ‘Le città invisibili’ con lettura di pagine scelte, [...] Ma se leggo io in inglese quei testi, li massacro. Ci vorrebbe qualcuno (attori?) che leggesse i brani, e io potrei commentare un po’. Non so proprio come cavarmela [1].

Fa sorridere quest’immagine di un Calvino preoccupato e forse anche un po’ intimidito. Uno dei suoi crucci era quello di non aver niente di pronto per il centenario ariostesco: “Capisco che il centenario di Manzoni è finito ed è cominciato il centenario di Ariosto, ma su Ariosto non ho niente di nuovo, a meno di leggere qualche pezzo di quella mia edizioncina dell’Orlando Furioso[2]. L’edizioncina cui modestamente si riferisce Calvino è il famosissimo lavoro di divulgazione dell’Orlando Furioso, responsabile, come è stato detto recentemente, di una vera e propria “calvinizzazione” del poema ariostesco nella cultura italiana dagli anni Settanta ad oggi [3].

Questo curioso aneddoto è interessante oltre che per la coincidenza del centenario ariostesco - il quinto centenario del Furioso si è appena concluso nel 2016 - anche perchè mi consente di introdurre il tema della mia riflessione sull’intertestualità Calvino-Ariosto che è quello del Calvino teatrale.

Questo Calvino timido lettore, nervoso all’idea di parlare in pubblico a meno di non avere un testo davanti, e terrorizzato all’idea di parlare in inglese, stride, in un certo senso, con l’immagine del Calvino esordiente. Non tutti sanno infatti che Calvino fu scrittore teatrale e anche attore. Così iniziò la sua carriera. La testimonianza si trova in una lettera ad Eugenio Scalfari del 1941 nella quale Calvino racconta del terribile fiasco che segnò l’inizio della sua carriera come attore e commediografo. L‘opera si chiamava La scuola di Socrate ed era una “rivista musico-teatrale” realizzata a più mani: “a Sanremo si limitarono a fischiarci, a Imperia ci tirarono i pomodori in faccia” [4].

Dopo un esordio non tanto promettente, Calvino continuò a scrivere e progettare opere teatrali. Sono dodici i titoli delle opere progettate, e parzialmente scritte, da Calvino tra il 1941 e il 1943. Al di là delle ragioni per le quali queste opere sono state perdute, distrutte o riciclate da Calvino,[5] quello che importa sottolineare è che, fin dagli esordi, Calvino nutrì una forte passione per il teatro e che questa passione continuò ad operare nella sua opera in una forma carsica manifestandosi infine come teatralità della sua narrativa [6].

Questo non significa che dopo i suoi esordi giovanili Calvino non scrivesse più per il teatro. Dopo un periodo di apparente silenzio, fra il 1943 e il 1955, Calvino prese a cimentarsi specialmente con il genere teatrale del libretto d’opera e iniziò una serie di collaborazioni, prima con Sergio Liberovici, poi con Toti Scialoja, e poi con il famoso Luciano Berio dalla seconda metà degli anni Settanta. Ebbene, che cosa successe tra il 1943 e il 1955? E che cosa c’entra Ariosto in tutto questo discorso?

In quegli anni Calvino si impegnò innanzitutto a diventare uno scrittore di successo. Questo significò dedicare tutti i suoi sforzi alla scrittura del romanzo, un genere letterario che gli avrebbe garantito l’auspicato successo editoriale. L’altra sua grande sfida fu quella di indossare il saio di scrittore comunista impegnato, cosa che comportava una serie di scelte estetiche obbligate dettate dalla poetica del realismo socialista. Calvino riuscì ad aggirare le varie costrizioni formali creando uno stile tutto suo, quella narrativa che Pavese per primo definì di “sapore ariostesco” e che Vittorini definì come “realismo a carica fiabesca”. Uno degli strumenti che Calvino aveva a sua disposizione per elaborare il suo personalissimo stile fu appunto la sua passione “repressa” per un certo tipo di teatro di tradizione comica. Quello che attirava Calvino erano la comicità immediata e tipicizzata della Commedia dell’Arte che egli metteva in collegamento con la comicità tutta scatti, macchiette e gags di Charlie Chaplin, ad esempio. Gli piacevano il mimo e il teatro popolare, ad esempio il teatro dei pupi siciliani. E adorava l’ironia ariostesca. Tutto questo si può ricostruire dallo studio di alcune recensioni teatrali che Calvino scrisse per “L’Unità” fra il 1949 e il 1950.

Altro aspetto importante che rinvia ad Ariosto, oltre a quello della comicità, è quello dell’oralità. Calvino amava il teatro per il suo carattere di performance, per il suo collocarsi al crocevia tra oralità e scrittura. Ed è questo anche uno degli aspetti che Calvino sottolinea appassionatamente nell’introduzione al suo Orlando Furioso: il fatto che il poema cavalleresco fosse un genere che nasceva dal repertorio orale dei cantastorie della Chanson de Roland, repertorio poi fissato nei “cantari di gesta” scritti in rima o in narrazioni in prosa che fornivano i motivi ai verseggiatori” [7].

Quando Calvino si mise a scrivere il suo primo romanzo di “sapore ariostesco” - Il sentiero (1947), egli attinse - come disse molti anni più tardi - ai racconti di guerra narrati intorno al fuoco, e cioè allo stesso patrimonio di storie collettive frammisto di realtà e leggende in cui si trovava immerso il cantastorie dell’anonima tradizione orale. Ecco confermato il nesso importante fra Calvino ed Ariosto ed il legame col teatro e la teatralità: il ritmo della narrazione orale che accomuna le storie favolose, mitiche ma anche realistiche di Calvino a quelle di Ariosto. Calvino dice che “il segreto dell’ottava ariostesca sta nel seguire il vario ritmo del linguaggio parlato [...] così come nella sveltezza della battuta ironica” [8].

Nella trilogia I nostri antenati - che comprende Visconte dimezzato (1952), Barone rampante (1957) e Cavaliere inesistente (1959) - Calvino attinge a piene mani alla tradizione ariostesca, non solo per quanto riguarda lo stile ma anche più esplicitamente per i contenuti: parla dei cavalieri di Artù, dei paladini di Francia, della battaglia contro gli infedeli. Anche quando non parla di questi argomenti, il riferimento intertestuale al poema ariostesco viene sempre fuori, ad esempio quando tratta il tema della pazzia amorosa, modellata appunto su quella di Orlando.

Su questa tematica mi soffermerò adesso presentando due esempi calviniani di intertestualità ariostesca, il primo tratto dal Visconte e il secondo dal Barone. Nel primo caso non si tratta però del romanzo ma delle arie che Calvino scrisse nel 1958 per l’opera buffa de Il visconte dimezzato su musica di Bruno Gillet. Queste arie furono commissionate da Gillet ma furono poi trovate inadeguate e non furono incluse nella versione definitiva dell’opera.

Sugli alberi qui crescono
Pere spaccate in due,
per le brughiere guizzano
lucertole a metà.

Ciò che si vede, dovunque si vada
pare una fiaba, pare una fiaba.

Di tutto ciò l’origine
si perde in una guerra
che un tempo combattevasi
contro il turco infedel.

Ciò che successe vi dirò per strada,
pare una fiaba, pare una fiaba.

Il visconte più giovane,
Medardo di Terralba,
nella pugna gettatosi
perdette il suo destrier.

Qualsiasi cosa in questo mondo accada
pare una fiaba, pare una fiaba. [...]

Da quando egli è qui reduce
una furia crudele
la notte e il dì divoralo:
fende tutto a metà.

Mezza la foglia, mezza la strada
pare una fiaba, pare una fiaba [9].



Calvino racconta la storia di Medardo che è andato a combattere contro “il turco infedel”, quando viene colpito da una palla di cannone e spezzato in due metà, il “Buono” e il “Gramo”.  Quest’ultimo, di animo tristo e crudele, è preso da da pazzia e “fende” tutto a metà con la sua spada (lucertole, pere, etc.).

Come fare a non ricordare la pazzia di Orlando, il quale, venuto casualmente a conoscenza del consumato amore tra Angelica e Medardo e avendo visto le loro iniziali incise sui tronchi d’albero nei punti del bosco in cui hanno ovviamente consumato il loro amore, impazzisce e comincia anche lui a sezionare tutto?

[...] Veder l’ingiuria sua scritta nel monte
l’accese sì, ch’in lui non restò dramma
che non fosse odio, rabbia, ira e furore;
nè più indugiò, che trasse il brando fuore.

Tagliò lo scritto e ‘l sasso, e sin al cielo
a volo alzar fe’ le minute schegge. [...]

che rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle
non cessò di gittar ne le bell’onde,
fin che da sommo ad imo sì turbolle,
che non furo mai più chiare nè monde [10].

Ovviamente il contesto è diverso: da un lato abbiamo una pazzia causata da una perdita d’identità, fisiologica e reale oltre che simbolica. Dall’altro lato la pazzia, e la perdita d’identità sono causate dalla sottrazione dell’oggetto amato. Però c’è decisamente un’eco intertestuale, sottolineata anche dal riferimento alla battaglia contro gli infedeli che ci ricorda la matrice comune delle storie narrate. C’è poi l’uso del verso che sottolinea ancora di più quel comune patrimonio di oralità che abbiamo detto legare il fantastico calviniano al poema ariostesco. Nel caso di Calvino non abbiamo l’ottava di endecasillabi ma uno schema misto di ottonari alternati a un settenario e ad un senario. Interessante è anche l’uso del refrain che sottolinea il carattere fiabesco della storia.

Per vedere come questa intertestualità con Ariosto si giochi su diversi livelli e nei vari testi della trilogia de I nostri antenati, bisogna ricordare che anche ne Il barone rampante si può rintracciare il riferimento al canto XXIII del Furioso, quando Cosimo Piovasco di Rondò perde temporaneamente il senno allorché la sua amata Viola si allontana da lui. Anche la pazzia di Cosimo, come quella di Orlando, e quella di Medardo, si esprime come concreta furia “distruggitrice” e sezionatrice:

Poi venne il tempo della violenza distruggitrice: ogni albero, cominciava dalla vetta e, via una foglia, via l’altra, rapidissimo lo riduceva bruco come d’inverno, anche se non era d’abito spogliante. Poi risaliva in cima e tutti i ramoscelli li spezzava finchè non lasciava che le grosse travature, risaliva ancora, e con un temperino cominciava a staccare la corteccia, e si vedevano le piante scorticate scoprire il bianco con abbrividente aria ferita. [...] Neanch’io potevo più farmi illusioni: stavolta Cosimo era proprio diventato matto.[11]

Per finire, vorrei saltare a molti anni più tardi, grosso modo gli anni in cui Calvino si sarebbe dovuto recare a Dublino. Calvino aveva dovuto annullare la sua visita per motivi di salute e aveva scritto ad Almansi che la cosa gli dispiaceva perché aveva uno scritto perfetto per l’occasione, sul tema dei castelli.[12] Una delle ragioni per cui il saggio sarebbe stato adatto per il centenario ariostesco era forse che Calvino avrebbe potuto far riferimento, parlando dei castelli, ad un testo di grande ispirazione ariostesca che aveva pubblicato per la prima volta nel 1969 e poi per la seconda volta in versione allargata nel 1973, Il Castello dei destini incrociati: opera nella quale Calvino prova a comporre una serie di storie servendosi delle infinite combinazioni che la sequenza delle carte di un mazzo di tarocchi disposte ordinatamente davanti a lui può evocargli. Come afferma nell’introduzione a questo libro, fra le storie che aveva provato subito a comporre c’erano quelle dell’Orlando Furioso, in particolare della pazzia di Orlando e del viaggio di Astolfo sulla luna. Quello che io trovo estremamente interessante è che l’ennesimo capitolo della lunga storia d’amore di Calvino per Ariosto comporta una perdita di quell’elemento che era stato responsabile del primo suo innamoramento: il tesoro di oralità, il patrimonio performativo del poema ariostesco viene sacrificato nel Castello i cui cantastorie sono muti. Epperò Calvino recupera quell’elemento performativo che era stato il fulcro del romanzo italiano fin dai tempi del Decameron: la cornice-palcoscenico trasfigurata nel castello incantato che, memore del palazzo di Atlante, diventa “un astuto stratagemma strutturale del narratore”[13] per mettere in scena i suoi personaggi, silenziosi come burattini di un teatro di pupi.


[1] I. Calvino, Lettere, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000,  pp. 1230-1231.
[2] Ibidem, p. 1231. Queste conferenze mancate sono ricordate da Bertoni nel volume che ricostruisce i rapporti di Calvino con la cultura irlandese. Si veda in particolare R. Bertoni, Italo Calvino’s Irish Microcosm, in Twenty years after: an “Irish” Calvino?, a cura di R. Bertoni, Torino, Trauben-Trinity College, 2007, pp. 11-20.
[3] S. Jossa, Con Ariosto, senza Calvino, “Doppiozero”, 7 gennaio 2017, http://www.doppiozero.com/materiali/con-ariosto-senza-calvino
[4] I. Calvino, Lettere, Milano, Mondadori, 2000,  p.9.
[5] In proposito si vedano le ipotesi passate in rassegna in E. M. Ferrara, Calvino e il teatro. Storia di una passione rimossa, Oxford, Peter Lang, 2011.
[6] Si veda E.M. Ferrara, Il realismo teatrale nella narrativa del Novecento: Vittorini, Pasolini, Calvino, Firenze, Firenze University Press, 2014.
[7] I. Calvino, Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino: con una scelta del poema, Torino, Einaudi, 1970, X.
[8] Ibidem, XXV.
[9] I. Calvino, Arie per l’opera buffa, in Romanzi e Racconti, vol. III, Milano, Mondadori, 1994, pp. 673-674
[10] L. Ariosto, Orlando Furioso, XXXIII, 129-131.
[11] I. Calvino, Il barone rampante, in Romanzi e Racconti, vol. I, Milano, Mondadori, 1991, pp. 733-734.
[12] Si veda I. Calvino, Castelli di delizie e castelli del terrore, in Saggi, vol. II, Milano, Mondadori, 1995, pp. 1635-1647.
[13] I. Calvino, “Ariosto: la struttura dell’Orlando Furioso”, in Saggi, vol. I, Milano, Mondadori, 1995, p. 767.