17/11/14

Claude Lévi-Strauss, TRISTI TROPICI

[That eternal symbol... A star? Another mandala? (Dublin 2014). Foto Rb]



Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici. Edizione originale francese 1955. Traduzione italiana di B. Garufi, Milano, Il Saggiatore, 1960


Ideato in una zona intermedia tra il diario di viaggio e lo Zibaldone di riflessioni miscellanee, questo libro ormai famoso fornisce un quadro tanto del Brasile degli anni Trenta, soprattutto le città in evoluzione e gli atteggiamenti delle comunità di migranti, quanto della vita dei pionieri dell’oro nei filoni esauriti, dei confinati da uno sviluppo non avvenuto nell’Amazzonia, e naturalmente, argomento principe, delle tribù studiate dall’autore, tra le quali i Bororo, i Nambwikara, i Mundé.

Colpiscono le considerazioni sulla vita e le osservazioni sulla società, di carattere non strettamente accademico, da parte di un antropologo quanto mai, invece e prevalentemente, teorico in altre sue opere. La ricerca sul campo conferisce umanità alla ricerca e arricchisce di rilievi sulla solidarietà interetnica, sul diverso grado di sviluppo delle tribù esaminate, dalla società neolitica dei Nambikwara a quella rituale e a forme simmetriche dei Bororo.

Ascritte le proprie origini teoriche tra Marx, Freud, la sociologia, l’archeologia e la geologia, e definitosi “viaggiatore antiquario” (p. 83), Lévi-Strauss, mentre narra le visite in Brasile  e descrive le società, riflette al contempo sul relativismo culturale, trattando delle condigurazioni tribali come se si trattasse di società a noi simili, pertanto addentrandosi con maggiore profondità nella comprensione dei loro sistemi di riferimento, materiali e simbolici.

L’esotismo risulta così da un’ineguaglianza di ritmo” (p. 127). Ai cosiddetti “primitivi, commenta Lévi-Strauss, “la civiltà fu brutalmente imposta” (p. 150), ma poi di essi le autorità preposte si sono disinteressate, impoverendoli e poco per volta spingendone alcuni verso l’estinzione. Non appunto esotizzati, questi indiani” danno all’autore “una lezione [...] valida” (p. 151):

“Lo studio di questi selvaggi ci ha dato ben altro che la rivelazione di uno stato di natura utopistica o la scoperta della società perfetta nel cuore delle foreste; esso ci aiuta a costruire un modello teorico della società umana, che non corrisponde a nessuna realtà osservabile, ma con l’aiuto del quale noi riusciremo a distinguere [citando Rousseau] ‘quello che c’è di originale e di artificiale nella natura attuale dell’uomo e a ben conoscere uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, e di cui è tuttavia necessario avere delle nozioni giuste per ben guardare il nostro stato presente’”.

Si aggiunge una nota a margine, relativa a un chiaro influsso dell’antropologo francese sulla teoria combinatoria di Italo Calvino in letteratura: “Gli individui – nei loro giochi, nei loro sogni, nei loro deliri – non creano mai in modo assoluto, ma si limitano a scegliere certe combinazioni in un repertorio ideale agevolmente ricostruibile” (p. 174).


[Roberto Bertoni]