[That eternal symbol... A star? Another mandala? (Dublin 2014). Foto Rb]
Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici. Edizione originale francese 1955. Traduzione italiana di B. Garufi, Milano, Il Saggiatore, 1960
Claude Lévi-Strauss, Tristi tropici. Edizione originale francese 1955. Traduzione italiana di B. Garufi, Milano, Il Saggiatore, 1960
Ideato in una zona
intermedia tra il diario di viaggio e lo Zibaldone di riflessioni miscellanee,
questo libro ormai famoso fornisce un quadro tanto del Brasile degli anni
Trenta, soprattutto le città in evoluzione e gli atteggiamenti delle comunità
di migranti, quanto della vita dei pionieri dell’oro nei filoni esauriti, dei
confinati da uno sviluppo non avvenuto nell’Amazzonia, e naturalmente,
argomento principe, delle tribù studiate dall’autore, tra le quali i Bororo, i
Nambwikara, i Mundé.
Colpiscono le considerazioni sulla vita e le osservazioni sulla società, di carattere non strettamente accademico,
da parte di un antropologo quanto mai, invece e prevalentemente, teorico in
altre sue opere. La ricerca sul campo conferisce umanità alla ricerca e
arricchisce di rilievi sulla solidarietà interetnica, sul diverso grado di
sviluppo delle tribù esaminate, dalla società neolitica dei Nambikwara a quella
rituale e a forme simmetriche dei Bororo.
Ascritte le proprie origini
teoriche tra Marx, Freud, la sociologia, l’archeologia e la geologia, e
definitosi “viaggiatore antiquario” (p. 83), Lévi-Strauss, mentre narra le visite in Brasile e descrive le società, riflette al contempo sul relativismo culturale,
trattando delle condigurazioni tribali come se si trattasse di società a noi simili,
pertanto addentrandosi con maggiore profondità nella comprensione dei loro
sistemi di riferimento, materiali e simbolici.
L’esotismo risulta così da
un’“ineguaglianza di ritmo” (p. 127). Ai cosiddetti “primitivi, commenta
Lévi-Strauss, “la civiltà fu brutalmente imposta” (p. 150), ma poi di essi le
autorità preposte si sono disinteressate, impoverendoli e poco per volta
spingendone alcuni verso l’estinzione. Non appunto esotizzati, questi “indiani”
danno all’autore “una lezione [...] valida” (p. 151):
“Lo studio di questi
selvaggi ci ha dato ben altro che la rivelazione di uno stato di natura
utopistica o la scoperta della società perfetta nel cuore delle foreste; esso
ci aiuta a costruire un modello teorico della società umana, che non
corrisponde a nessuna realtà osservabile, ma con l’aiuto del quale noi
riusciremo a distinguere [citando Rousseau] ‘quello che c’è di originale e di artificiale
nella natura attuale dell’uomo e a ben conoscere uno stato che non esiste più,
che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, e di cui è
tuttavia necessario avere delle nozioni giuste per ben guardare il nostro stato
presente’”.
Si aggiunge una nota a margine, relativa a un
chiaro influsso dell’antropologo francese sulla teoria combinatoria di Italo
Calvino in letteratura: “Gli individui – nei loro giochi, nei loro sogni, nei
loro deliri – non creano mai in modo assoluto, ma si limitano a scegliere certe
combinazioni in un repertorio ideale agevolmente ricostruibile” (p. 174).
[Roberto Bertoni]