21/11/14

Chen Kaige, THE SACRIFICE



["Was it a lantern? A montgolfiere?" (Soho 2014). Foto Rb]


Chen Kaige, The Sacrifice. Cina 2010. Con Fang Bingbing, Ge You, Hai Qing, Huang Xiaoming, Wang Xueqi, Vincent Zhao, Zhao Wenhao


Film di successo in Cina, The sacrifice si presenta con minore sontuosità della pellicola di Chen Kaige di maggiore risonanza in Occidente, ovvero Addio mia concubina, ma pur sempre con una ricostruzione attenta del periodo storico. Dinamiche sono varie scene di duelli. Introspettiva e umana si rivela la recitazione di Ge You.

Sostenuto su inversioni e colpi di scena, l’intreccio a sfondo familiare è basato sul lavoro teatrale Zhaoshi guer da bao chou (The orphan of Zhao), di Chin Chun-hsiang, del tredicesimo secolo, a sua volta derivato da un episodio storico [1].

La versione di Chen Kaige è ambientata, come l’originale, nel ducato di Jin e mantiene l’idea base, il sacrificio di un figlio per salvare il figlio della famiglia Zhao, sterminata dal Duca Tu’an Gu, che uccide la moglie e il neonato del medico Chen Ying, che a sua volta aveva salvato l’aristocratico fanciullo. Sebbene, offrendo il proprio figlio col fingere fosse l’altro, Chen Ying avesse sperato di salvare entrambi, ciò non accade. Presentandosi a Tu’an Gu, chiede di entrare nel suo entourage feudale, ove fa addestrare il bambino nelle arti marziali per rivelargli in età adolescente chi è suo padre e spingerlo alla vendetta. Si dipana convoluto e non certo privo di colpi di scena l’intreccio, il cui elemento più notevole è forse la riluttanza del ragazzo a uccidere un uomo accanto al quale è cresciuto e che gli ha dimostrato benevolenza. La vendetta prende infine campo, compiendosi, ma nel duello finale perisce anche il padre adottivo per mano del Duca.

Fondato su pochi elementi espressivi, dialoghi concisi, immagini più in interno che negli esterni, il film ha una tenuta rimarchevole in termini di suspense e articolazione dei valori familiari, dell’onore e della fermezza contro l’efferatezza del potere.

Dell’originale teatrale cinese, tradotto in Occidente, in francese, dal Padre Gesuita Joseph Henri Prémare nel 1731 col titolo L’orphelin de la Maison de Tchao, ci sono state varie rielaborazioni occidentali, nate, come osserva Liu, dalla moda orientale delle chinoiserie, che era all’apice nel diciottesimo secolo [2]. Se ne citano qui tre: quella di Metastasio (1752), quella di Voltaire (1755) e quella della Royal Shakespeare Company (2012).

Nell’Eroe cinese di Metastasio, libretto d’opera del 1752 (musicato da Giuseppe Donno nello stesso anno e da Johann Adolf Hasse nel 1753) [3], il motivo  dell’orfano Zhao Wu viene ripreso con personaggi dai nomi modificati, esposti a svolte del destino simili alla storia originaria, ma con l’aggiunta di due legami amorosi e un lieto fine, in breve con cambiamenti essenziali anche della fabula.

In Metastasio, Leango, il padre che salva l’orfano Siveno, sacrificando il proprio figlio, è il reggente dell’Impero e rivela la verità il giorno in cui Siveno deve diventare imperatore, legittimato dunque a prendere in sposa Lisinga, la principessa tartara che ama. Lo stesso giorno, al fedele uomo d’armi Mintéo, amico di Siveno e innamorato di Ulania, la sorella di Lisinga, viene rivelato che era il medesimo Mintéo il legittimo successore al trono. Mintéo salva Siveno durante un’insurrezione; e l’equivoco si chiarisce: Mintéo era stato risparmiato dalla morte, ma era in realtà il figlio creduto morto di Leango, mentre Siveno era in effetti il figlio dell’Imperatore. I due eroi sposano le principesse amate, il padre si ricongiunge col figlio, Siveno sale sul trono. Si delinea più un groviglio degli equivoci che un páthos storico profondo e tragico. Nondimeno, tra i valori, si stagliano la lealtà, l’amicizia, la sincerità. La commozione è per le pene d’amore (“Ah, mia vita, a sospirar son nato!”). L’angolazione orientalista è piuttosto positiva: si veda la didascalia in cui, descrivendo la scena, viene espressa la “diversità” del palazzo della corte cinese, accompagnata da ammirazione per la congiunzione artistica di “natura e arte” nelle sue decorazioni.

In L’orphelin de la Chine (1755), Voltaire sposta lambientazione al tempo di Genghis Khan. Il nemico in questo intreccio sono i Tartari, che nel corso del lavoro teatrale conquistano Pechino. Gengis Khan tenta di sterminare la famiglia reale: “J’envoyai la terreur, et j’apporte la paix: la mort du fils du roi suffit à ma vengeance” [4]. Il mandarino Zamti e la moglie Idamé salvano l’ultimo erede, sacrificando al suo posto il proprio figlio. Gengis Khan impedisce ai coniugi di togliersi la vita, mostrando generosità per la nobiltà del cuore, per le virtù di Idamé (“vos vertus”, le ultime parole del testo).

Gengis dichiara a Zamti e Idamé la propria trasformazione: “Tous deux je vous admire, et vous m’avez vaincu […]; jouissez de l’honneur d’avoir pu me changer. Je viens vous réunir: je viens vous protéger […[ Je fus un conquérant, vous m’avait fait un roi”. I tartari si sostituiscono dunque ai precedenti dominatori, assumendone i costumi e creando continuità. Il filosofo francese è del resto a favore della “supériorité naturelle que donnent la raison et le génie sur la force aveugle et barbare” [5]. Conseguentemente, Gengis nel lavoro teatrale di Voltaire, rispetta la cultura cinese: “Cessez de mutiler toute ces grandes monuments, ces prodiges des arts consacrés par les temps; respectez-les”. Col trasformarsi da conquistatore in re, supera lo stato di barbarie: “Que les peuples vaincus gouvernent les vainqueurs, que la sagesse règne”. Graecia capta… in un certo senso, per fare un paragone occidentalizzante.

L’adattamento di James Fenton per la Royal Shakespeare Company, intitolata The orphan of Zhao (2012), è dovuta a quella che il regista della rappresentazione, Gregory Doran, definisce “Shakespearean complexity”; e al carattere epico, oltre che all’attualità in quanto “metaphor to resist tyranny of any kind” e all’abilità dell’anima umana di tener testa alla malvagità. Doran nota infine la bellezza poetica e l’universalità dei sentimenti espressi [6].

L’autore del testo per questa produzione teatrale, James Fenton, dichiara nell’Introduzione di avere seguito in vari luoghi una versione cinese del 1615, tradotta in inglese da Stephen West e Wilt Idema, ma al contempo di essersene discostato, spostando l’azione alla corte imperiale invece che nel ducato. Qui la giustificazione suona un po’ strana, come se dovesse riconfermare dei cliché orientalisti negativi: “To my Western year, the word ‘Duke’ rings oddly in a Chinese feudal context, in a way that ‘Emperor’, ‘Lord’ and ‘Princess’ do not” [7]. Mah. Perché, se non per esotismo, si dovrebbe trovar strano un Duca cinese? Senza contare l’enormità storica se l’azione, compresa la prossimità del trovatello e del suo oppressore ignari di chi siano, è con un Imperatore che risulta ucciso alla fine. Tra le altre modifiche di Fenton, la madre nobile del ragazzo, qui Principessa, sopravvive.


[Roberto Bertoni]


[1] Cfr. Liu Wu-Chi, “The original orphan of China”, Comparative Literature, 5.3, 1953, pp. 193-212.
[2] Cfr. Liu, cit., p. 203.
[3] Metastasio, L’eroe cinese, Milano, Simplicissimus, 2011 (citazioni dalla versione Kindle). La versione musicata di Hasse è ascoltabile su You tube.
[4] Voltaire, L’orphelin de la Chine, Ouvre de domain public (ed. Kindle).
[5] Manuel Couvreur, L’orphelin de la Chine.
[7] James Fenton, The orphan of Zhao: Based on traditional Chinese sources, Londra, Faber, 2012.