["Was it a lantern? A montgolfiere?" (Soho 2014). Foto Rb]
Chen Kaige, The Sacrifice. Cina 2010. Con Fang Bingbing, Ge You,
Hai Qing, Huang Xiaoming, Wang Xueqi, Vincent Zhao, Zhao Wenhao
Film di successo in Cina, The sacrifice si presenta con minore
sontuosità della pellicola di Chen Kaige di maggiore risonanza in Occidente,
ovvero Addio mia concubina, ma pur
sempre con una ricostruzione attenta del periodo storico.
Dinamiche sono varie scene di duelli. Introspettiva e umana si rivela la recitazione di Ge
You.
Sostenuto su inversioni e colpi
di scena, l’intreccio a sfondo familiare è basato sul lavoro teatrale Zhaoshi
guer da bao chou (The orphan of
Zhao), di Chin Chun-hsiang, del tredicesimo secolo, a sua volta derivato da
un episodio storico [1].
La
versione di Chen Kaige è ambientata, come l’originale, nel ducato di Jin e
mantiene l’idea base, il sacrificio di un figlio per salvare il figlio della
famiglia Zhao, sterminata dal Duca Tu’an Gu, che uccide la moglie e il neonato del medico Chen Ying, che a sua
volta aveva salvato l’aristocratico fanciullo. Sebbene, offrendo il proprio
figlio col fingere fosse l’altro, Chen Ying avesse sperato di salvare entrambi,
ciò non accade. Presentandosi a Tu’an Gu, chiede di entrare nel suo entourage feudale, ove fa addestrare il bambino nelle arti marziali per rivelargli in età adolescente chi è suo padre e spingerlo alla
vendetta. Si dipana convoluto e non certo privo di colpi di scena l’intreccio, il cui
elemento più notevole è forse la riluttanza del ragazzo a uccidere un uomo
accanto al quale è cresciuto e che gli ha dimostrato benevolenza. La vendetta
prende infine campo, compiendosi, ma nel duello finale perisce anche il padre
adottivo per mano del Duca.
Fondato su pochi elementi espressivi, dialoghi concisi, immagini più in interno che negli esterni, il film ha una tenuta rimarchevole in termini di suspense e articolazione dei valori familiari, dell’onore e della fermezza contro l’efferatezza del potere.
Dell’originale teatrale
cinese, tradotto in Occidente, in francese, dal Padre Gesuita Joseph Henri
Prémare nel 1731 col titolo L’orphelin de
la Maison de Tchao, ci sono state varie rielaborazioni occidentali, nate,
come osserva Liu, dalla moda orientale delle chinoiserie, che era all’apice nel diciottesimo secolo [2]. Se
ne citano qui tre: quella di Metastasio (1752), quella di Voltaire (1755) e
quella della Royal Shakespeare Company (2012).
Nell’Eroe cinese di Metastasio, libretto d’opera del 1752 (musicato da
Giuseppe Donno nello stesso anno e da Johann Adolf Hasse nel 1753) [3],
il motivo dell’orfano Zhao Wu viene ripreso
con personaggi dai nomi modificati, esposti a svolte del destino simili alla
storia originaria, ma con l’aggiunta di due legami amorosi e un lieto fine,
in breve con cambiamenti essenziali anche della fabula.
In Metastasio, Leango, il
padre che salva l’orfano Siveno, sacrificando il proprio figlio, è il reggente
dell’Impero e rivela la verità il giorno in cui Siveno deve diventare
imperatore, legittimato dunque a prendere in sposa Lisinga, la principessa
tartara che ama. Lo stesso giorno, al fedele uomo d’armi Mintéo, amico di
Siveno e innamorato di Ulania, la sorella di Lisinga, viene rivelato che era il
medesimo Mintéo il legittimo successore al trono. Mintéo salva Siveno durante
un’insurrezione; e l’equivoco si chiarisce: Mintéo era stato risparmiato dalla
morte, ma era in realtà il figlio creduto morto di Leango, mentre Siveno era in
effetti il figlio dell’Imperatore. I due eroi sposano le principesse amate, il
padre si ricongiunge col figlio, Siveno sale sul trono. Si delinea più un groviglio degli
equivoci che un páthos storico profondo
e tragico. Nondimeno, tra i valori, si stagliano la lealtà, l’amicizia, la
sincerità. La commozione è per le pene d’amore (“Ah, mia vita, a sospirar son
nato!”). L’angolazione orientalista è piuttosto positiva: si veda la didascalia
in cui, descrivendo la scena, viene espressa la “diversità” del palazzo della
corte cinese, accompagnata da ammirazione per la congiunzione artistica di
“natura e arte” nelle sue decorazioni.
In L’orphelin de la Chine (1755), Voltaire sposta l’ambientazione al
tempo di Genghis Khan. Il nemico in questo intreccio sono i Tartari, che nel
corso del lavoro teatrale conquistano Pechino. Gengis Khan tenta di sterminare
la famiglia reale: “J’envoyai la terreur, et j’apporte la paix: la mort du fils
du roi suffit à ma vengeance” [4]. Il
mandarino Zamti e la moglie Idamé salvano l’ultimo erede, sacrificando al suo
posto il proprio figlio. Gengis Khan impedisce ai coniugi di togliersi la vita,
mostrando generosità per la nobiltà del cuore, per le virtù di Idamé (“vos
vertus”, le ultime parole del testo).
Gengis dichiara a Zamti e
Idamé la propria trasformazione: “Tous deux je vous admire, et vous m’avez
vaincu […]; jouissez de l’honneur d’avoir pu me changer. Je viens vous réunir: je viens vous protéger […[ Je fus un conquérant,
vous m’avait fait un roi”. I tartari si sostituiscono dunque
ai precedenti dominatori, assumendone i costumi e creando continuità. Il
filosofo francese è del resto a favore della “supériorité
naturelle que donnent la raison et le génie sur la force aveugle et barbare” [5]. Conseguentemente, Gengis nel lavoro teatrale di Voltaire,
rispetta la cultura cinese: “Cessez de mutiler toute ces grandes monuments, ces
prodiges des arts consacrés par les temps; respectez-les”. Col trasformarsi da
conquistatore in re, supera lo stato di barbarie: “Que les peuples vaincus
gouvernent les vainqueurs, que la sagesse règne”. Graecia capta… in un certo senso, per fare un paragone
occidentalizzante.
L’adattamento di James
Fenton per la Royal Shakespeare Company, intitolata The orphan of Zhao (2012), è dovuta a quella che il regista della
rappresentazione, Gregory Doran, definisce “Shakespearean complexity”; e al
carattere epico, oltre che all’attualità in quanto “metaphor to resist tyranny
of any kind” e all’abilità dell’anima umana di tener testa alla malvagità. Doran
nota infine la bellezza poetica e l’universalità dei sentimenti espressi [6].
L’autore del testo per
questa produzione teatrale, James Fenton, dichiara nell’Introduzione di avere
seguito in vari luoghi una versione cinese del 1615, tradotta in inglese da Stephen West e Wilt Idema, ma al
contempo di essersene discostato, spostando l’azione alla corte imperiale
invece che nel ducato. Qui la giustificazione suona un po’ strana, come se
dovesse riconfermare dei cliché
orientalisti negativi: “To my Western year, the word ‘Duke’ rings oddly in a
Chinese feudal context, in a way that ‘Emperor’, ‘Lord’ and ‘Princess’ do not” [7]. Mah.
Perché, se non per esotismo, si dovrebbe trovar strano un Duca cinese? Senza
contare l’enormità storica se l’azione, compresa la prossimità del trovatello e
del suo oppressore ignari di chi siano, è con un Imperatore che risulta ucciso
alla fine. Tra le altre modifiche di Fenton, la madre nobile del ragazzo, qui
Principessa, sopravvive.
[Roberto Bertoni]
[1]
Cfr. Liu Wu-Chi, “The original orphan of China”, Comparative Literature, 5.3, 1953, pp. 193-212.
[2] Cfr. Liu, cit., p. 203.
[4] Voltaire, L’orphelin de la Chine, Ouvre de domain
public (ed. Kindle).
[5] Manuel Couvreur, L’orphelin de la Chine.
[6] Cfr. l’intervista con Doran.