13/09/14

LA BAIADERA E L’ESOTISMO





["But that was indeed a universal symbol - a labyrynth? The wheel of destiny?" (Newgrange 2014). Foto Rb]

 


Partiamo da Il dio e la baiadera, ballata di Goethe (composta nel 1797 e tradotta in italiano da Benedetto Croce) [1]. In questa versione il dio, travestito da essere umano, trascorre una notte d’amore con la baiadera, o danzatrice, la quale, trovatolo morto la mattina dopo, si dispera e si getta nella pira in cui arde il corpo del presunto amante, al che il dio ricompare, si manifesta nella propria vera natura e accoglie presso di sé la baiadera devota in quanto “la deità gioisce dei pentiti peccatori; / ed i figli suoi smarriti / con le braccia di fuoco innalza al ciel”. Si ha qui una romanticizzazione del motivo originale, riposto nella mitologia Hindu, in cui per inciso il dio è definito ed è Bhrama.

Da questa versione si passa a rese vieppiù orientaleggianti, così nel divertissement sotto forma di balletto dell’opera di Auber Dio e la baiadera, con coreografia di Filippo Taglioni, basata sulla ballata del poeta tedesco e rappresentata per la prima volta nel 1830 all’Opera di Parigi.

Molly Engelhardt rende conto dell'evidente accresciuto orientalismo cui questa storia, trasformata in balletto, venne ulteriormente esposta affermandosi in Inghilterra, ove propose al pubblico degli anni Trenta dell’Ottocento "the visual topoi they expected to see - dancing girls, funeral pyres, licentious sultans, eunuchs, snakes in baskets, magic bouquets, slave markets on the stage" [2]. Al contempo, la studiosa riscontra le rappresentazioni londinesi delle eredi indiane della tradizione danzante devadasi o danzatrici del tempio (tradizione tradotta in Occidente come danza delle baiadere, impropriamente). Sembrerebbe che, pur nota la radice autentica devadasi del balletto, l’Occidente se ne sia servito per orientaleggiarla. Infatti, la visita delle danzatrici del tempio a Londra ulteriormente contribuì, lungi dal teatro autentico di creazione della loro danza e per via della gestione dello spettacolo da parte degli organizzatori, alla costruzione del motivo orientalista anziché tenerlo a distanza: la trasposizione inglese, caratterizzata da motivi di supremazia coloniale, nota Engelhardt, “marketed the dancers as a curiosity, a novelty, rather than a metaphysics of India’s culture” [3].

Passano gli anni e nel 1877 il coreografo francese Marius Petipa, trasferitosi a Pietroburgo, produce La Bayadère, con musica di Leon Minkus. Interessante collaborazione di una delle più occidentali e della più orientale delle superpotenze dell’Occidente di allora. In questa versione, la storia si modifica sensibilmente e riceve una ricostruzione che la rilancia: la baiadera Nikiya è innamorata, ricambiata, del guerriero Solor, ma quando a costui il rajah promette in sposa la figlia Gamzatti, Solor dimentica Nikiya. Aya, schiava di Gamzatti, per eliminare l’avversaria della padrona, si serve di un serpente velenoso. Nikiya decide di danzare fino alla morte. Solo allora Solor si ravvede, la raggiunge nel Regno delle Ombre e le promette amore eterno.

L’intreccio sentimentale del balletto del 1877 non è alieno da valori di sacrificio che sono orientali e vengono ripresi in chiave occidentale. Il fiabesco rammenta più Le mille e una notte che il mito. Fin qui, però, si resta su un terreno universalmente umano. Quel che è decisamente orientalista è la miscela non filologica di elementi disparati anche in versioni relativamente moderne come quella del Balletto di Kirov del 1977, nella cui scenografia la statua del dio è un misto di Buddha e divinità Hindu; coesistono corpetti indiani e tutu di danza classica; e così via.

Se si guarda anche una versione asiatica, quella del Balletto Nazionale della Corea del Sud, non c’è molta differenza di impostazione: viene conservato l’orientalismo occidentaleggiante, forse anche per l’ormai stabilizzata presenza canonica di questo balletto nei repertori.

La musica, di per sé, non ha molto di orientale, trattandosi di un balletto classicamente occidentale, ma echeggia a tratti elementi folclorici russi.

Sul piano tecnico, tuttavia, e isolato dal contesto orientale, il terzo atto, quello che si svolge nell’oltreterra, è di carattere astratto: prescinde dalla mimica e dalla sceneggiatura orientaleggiante, proponendo una serie di movenze che sono entrate nel repertorio classico del balletto e hanno costituito momenti di esibizione privilegiata anche per divi quali Nureyev.

Uno dei tanti percorsi dell’orientalismo.

[1] Pubblicata sulla “Critica”, 16, 1918

[2] P. 510 di M. Engelhardt, The real bayadère meets the ballerina on the western stage, “Victorian Literature and Culture”, 42, 2014, pp. 509-534.

[3] Ibidem, p. 524

[Roberto Bertoni]