["But that was indeed a universal symbol - a labyrynth? The wheel of destiny?" (Newgrange 2014). Foto Rb]
Partiamo da Il dio e la baiadera, ballata di Goethe
(composta nel 1797 e tradotta in italiano da Benedetto Croce) [1].
In questa versione il dio, travestito da essere umano, trascorre una notte
d’amore con la baiadera, o danzatrice, la quale, trovatolo morto la mattina
dopo, si dispera e si getta nella pira in cui arde il corpo del presunto
amante, al che il dio ricompare, si manifesta nella propria vera natura e
accoglie presso di sé la baiadera devota in quanto “la deità gioisce dei
pentiti peccatori; / ed i figli suoi smarriti / con le braccia di fuoco innalza
al ciel”. Si ha qui una romanticizzazione del motivo originale, riposto nella
mitologia Hindu, in cui per inciso il dio è definito ed è Bhrama.
Da questa versione si passa
a rese vieppiù orientaleggianti, così nel divertissement
sotto forma di balletto dell’opera di Auber Dio
e la baiadera, con coreografia di Filippo Taglioni, basata sulla ballata
del poeta tedesco e rappresentata per la prima volta nel 1830 all’Opera di
Parigi.
Molly Engelhardt rende conto dell'evidente accresciuto orientalismo cui questa storia, trasformata in balletto, venne ulteriormente esposta affermandosi in Inghilterra, ove propose al
pubblico degli anni Trenta dell’Ottocento "the visual topoi they expected to
see - dancing girls, funeral pyres, licentious sultans, eunuchs, snakes in
baskets, magic bouquets, slave markets on the stage" [2]. Al contempo, la studiosa riscontra le rappresentazioni londinesi delle eredi
indiane della tradizione danzante devadasi o danzatrici del tempio
(tradizione tradotta in Occidente come danza delle baiadere, impropriamente). Sembrerebbe
che, pur nota la radice autentica devadasi del balletto, l’Occidente se ne sia
servito per orientaleggiarla. Infatti, la visita delle danzatrici del tempio a Londra ulteriormente
contribuì, lungi dal teatro autentico di creazione della loro danza e per via della gestione dello spettacolo da parte degli organizzatori, alla
costruzione del motivo orientalista anziché tenerlo a distanza: la
trasposizione inglese, caratterizzata da motivi di supremazia coloniale, nota
Engelhardt, “marketed the dancers as a curiosity, a novelty, rather than a
metaphysics of India’s culture” [3].
Passano gli anni e nel 1877
il coreografo francese Marius Petipa, trasferitosi a Pietroburgo, produce La
Bayadère, con musica di Leon Minkus. Interessante collaborazione di una delle
più occidentali e della più orientale delle superpotenze dell’Occidente di
allora. In questa versione, la storia si modifica sensibilmente e riceve una
ricostruzione che la rilancia: la baiadera Nikiya è innamorata, ricambiata, del
guerriero Solor, ma quando a costui il rajah promette in sposa la figlia
Gamzatti, Solor dimentica Nikiya. Aya, schiava di Gamzatti, per eliminare
l’avversaria della padrona, si serve di un serpente velenoso. Nikiya decide di
danzare fino alla morte. Solo allora Solor si ravvede, la raggiunge nel Regno
delle Ombre e le promette amore eterno.
L’intreccio sentimentale del
balletto del 1877 non è alieno da valori di sacrificio che sono orientali e
vengono ripresi in chiave occidentale. Il fiabesco rammenta più Le mille e una notte che il mito. Fin
qui, però, si resta su un terreno universalmente umano. Quel che è decisamente
orientalista è la miscela non filologica di elementi disparati anche in
versioni relativamente moderne come quella del Balletto di Kirov del 1977, nella cui
scenografia la statua del dio è un misto di Buddha e divinità Hindu; coesistono corpetti
indiani e tutu di danza classica; e così via.
Se si guarda anche una
versione asiatica, quella del Balletto Nazionale della Corea del Sud, non c’è molta
differenza di impostazione: viene conservato l’orientalismo occidentaleggiante,
forse anche per l’ormai stabilizzata presenza canonica di questo balletto nei
repertori.
La musica, di per sé, non ha
molto di orientale, trattandosi di un balletto classicamente occidentale, ma
echeggia a tratti elementi folclorici russi.
Sul piano tecnico, tuttavia,
e isolato dal contesto orientale, il terzo atto, quello che si svolge
nell’oltreterra, è di carattere astratto: prescinde dalla mimica e dalla
sceneggiatura orientaleggiante, proponendo una serie di movenze che sono entrate
nel repertorio classico del balletto e hanno costituito momenti di esibizione
privilegiata anche per divi quali Nureyev.
Uno dei tanti percorsi
dell’orientalismo.
[2] P. 510 di M. Engelhardt, The real bayadère meets the ballerina on the western stage, “Victorian Literature and Culture”, 42, 2014, pp. 509-534.
[3] Ibidem, p. 524
[Roberto Bertoni]