Roma-Bari,
Laterza, 2010. (Edizione Kindle, 2013).
Sebbene ci siano riferimenti bibliografici a
Freud, non stupisce non trovare riferimenti a Jung in questo libro che nega il
concetto di identità, affermando che “si può fare a meno dell’identità”.
Premettiamo subito che troviamo questa negazione
piuttosto bizzarra; ma, come abbiamo avuto occasione di osservare in altre
occasioni, ci anima forse una semplicità esagerata, accompagnata dal cosiddetto
buon senso.
Abbiamo riscontrato l’assenza di Jung perché per
la psicologia analitica l’identità è la dimensione fondamentale dell’essere
umano, tanto che lo scopo dell’analisi è trovare il Sé, ovvero la complessità di dimensioni consce e inconsce (Persona, Animus, Anima, Ombra, ecc.) che costituisce l’interezza
nella sua contraddittorietà, e una volta individuata,
consente di procedere nella prassi in concordanza con chi si è. Ciò ci pare
valido individualmente, ma anche socialmente.
Sul piano sociale, a noi pare evidente che l’identità
di classe, gruppo di appartenenza, religione, nazionalità, cultura e altri
elementi, pur non dovendo ridursi a ristretta visione orientata verso ideologie
reazionarie, svolge un ruolo chiave nell’interazione con gli altri.
Pare che Remotti neghi queste dimensioni per l’urgenza
di controbattere, su un piano di ideologia progressiva che di per sé è
apprezzabile, la chiusura identitaria verso l’altro, lo straniero, l’immigrante,
il diverso: la percezione, insomma, che “l’altro è di per sé una minaccia, la
sua sola presenza costituisce un pericolo per noi, per la nostra identità”.
Non si tratterebbe piuttosto di interloquire
positivamente con “l’altro” e arricchire invece che abolire, come cura del
razzismo e del pregiudizio, la propria identità?
Su diversi piani, il ragionamento del volume sembrerebbe
condurre a un relativismo molto pronunciato, per cui, seguendo Sparti, “l’identità
non è che il referente immaginario dei processi di identificazione” e serve a
controllare la “transitorietà” dell’esistenza tardo-moderna.
Infine, l’identità serve a “far fronte non
soltanto alla pluralità, ma anche ai rischi di dispersione che ne derivano”,
dal che conseguirebbe che “l’identità è un’operazione ‘finzionale’”, una “costruzione
illusoria e ingannevole”.
Pur simpatizzando con la molteplicità che, molto
tornata in auge di recente, è a dire il vero un problema eterno e in ogni caso
già ben evidenziata nel primo Novecento (tanto per citare il lapalissiano, si
pensi al pirandelliano Uno, nessuno e
centomila), non pare che la conseguenza di abolire il concetto di identità
in quanto mistificatorio sia una buona idea, forse sarebbe meglio abolire la mistificazione
per riappropriarsi di una concezione di identità fondata sul proprio vero io,
sradicate le negatività che ci allontanano dal rapporto positivo, non alienato,
con noi stessi e con gli altri.
Ci domandiamo se questa pratica frommiana, e
compatibile col Buddhismo, non sia buddhisticamente contraddetta dall’idea che
l’io non esiste, è solo un agglomerato di formazioni temporanee… ma a questa
idea ci si atterrà, crediamo, per migliorarsi, dunque per riidentificarsi
diversamente da prima, nei processi di perpetua mutazione che conducono all’utopia
della costruzione di un essere cosciente e volto al bene.
[Roberto Bertoni]