Milena Michiko Flašar, Il signor Cravatta. Traduzione di D. Idra, Torino, Einaudi, 2014
Talvolta la fuga – prima ancora di esser un’evasione
dal mondo – è una corsa accidentata per schivare se stessi. Occorre allora non
lasciare tracce della propria coscienza, rifugiarsi in una routine fatta
di gesti minimi e, soprattutto, vigilare. Vigilare senza sosta,
inflessibilmente. Una minima distrazione, e tutto può crollare.
Come ci racconta la nippo-austriaca Milena Michiko
Flašar ne Il signor Cravatta, Taguchi Hiro lo sa bene. Vent’anni che
pesano come mille, e ventiquattro mesi trascorsi rinchiuso nella sua stanza, a
proteggersi col silenzio e l’assenza dalla realtà che preme alle porte, per poi
tentare – quasi distrattamente – di ritrovare fuori, in strada, la propria
identità. Un’ombra di essa pare essersi annidata in un anonimo parco, su una
panchina qualunque, dirimpetto a quella d’un uomo malinconicamente stanco, che
Taguchi Hiro incontra ogni giorno. Sguardi rapidi, qualche cenno, un saluto, e
poi – d’improvviso – un torrente di confessioni fra loro. Qualche volta la voce
si annoda giù nella gola, il corpo freme, mentre i segreti si frangono contro i
denti stretti, ma una storia non può che chiamare un’altra storia, e un’altra,
e un’altra. E così via.
L’acerbo hikikomori (auto-recluso
volontariamente) e il salaryman (impiegato) che sente la vecchiaia
corrodergli le ossa; il ragazzo che si ostina a nascondersi – sotto una zazzera
folta, dietro gli occhi bassi, in mezzo alle paure – e l’uomo che non si separa
mai dalla sua cravatta – simbolo di quella normalità che lo strangola piano e,
al tempo stesso, lo tiene vivo –; due animali spaventati in cerca di un luogo
sicuro da cui spiare l’esistenza senza esserne spiati. Qualcuno sarebbe forse
tentato di scorgere nelle loro figure – neppure troppo in filigrana – la
schiacciante ansia da prestazione, le enormi pressioni connesse all’ambito
lavorativo, nonché l’insopportabile mole di aspettative e responsabilità che
gravano sulle spalle dei giapponesi sin dalla giovane età: ma una lettura
orientata solo in tal senso finirebbe per sminuire l’opera, facendone il
corollario romanzesco d’una teoria sociologica.
Con una prosa distillata, evocativa, che però non
smarrisce mai la sua quotidianità, l’autrice dispiega dinanzi a noi una
narrazione in cui si alternano tenerezza, dolore e rimpianto. Parola dopo
parola, le solitudini costruite con meticolosità si incrinano e lasciano
finalmente penetrare il sentimento più difficile: la fiducia nell’altro.