Roma, Nottetempo, 2014
Nella prefazione
alla seconda edizione di Infanzia e
storia, Giorgio Agamben identifica nel concetto di linguaggio e in quello
di potenza, o meglio, nel nesso esistente tra i due, il nucleo della propria
speculazione filosofica:
Se
per ogni autore esiste un interrogativo che definisce il motivum del suo pensiero, l’ambito
che queste domande circoscrivono coincide senza residui con quello verso il
quale si orienta tutto il mio lavoro. Nei libri scritti e in quelli non
scritti, io non ho voluto pensare ostinata-mente che una cosa sola: che
significa ‘vi è linguaggio’, che significa ‘io parlo’? […] Porre il problema
del trascendentale vuol dire in ultima analisi chiedere che cosa significa
‘avere una facoltà’, qual è la grammatica del verbo ‘potere’. E la sola
risposta possibile è un’esperienza del linguaggio.[1]
Del resto, secondo
quest’ottica, è proprio la facoltà linguistica, il poter entrare nel ed esperire il linguaggio, ciò che rende tale il soggetto umano,
introducendolo, al contempo, alla propria singolarità individuale e alla
storia.
Non stupisce,
pertanto, che, dopo averne più volte sondato il perimetro, Agamben abbia deciso
di indagare in modo specifico e organico l’orizzonte più propriamente
linguistico della vita umana, quello letterario. Quella dimensione del
linguaggio ‘che ne disattiva e rende inoperose le funzioni comunicative e
informative, per aprirle ad un nuovo, possibile uso […] in cui la lingua, che
ha disattivato le sue funzioni utilitarie, riposa in se stessa, contempla la
sua potenza di dire’.[2]
Come suggerisce
il titolo di questa raccolta di dieci saggi, Il fuoco e il racconto, e le cui suggestioni vengono almeno
parzialmente esplicitate nel primo omonimo scritto, è questa una trattazione
che procede principalmente lungo le due direttrici del mistero e della
narrazione.[3]
Quest’ultima identifica lo stile autoriale, la selezione che ogni scrittore
compie tra configurazioni ipotetiche e congetture e l’ordito che da essa ne ricava.
Mistero è, invece, l’infinito bagaglio di potenzialità inespresse e mai
concretizzatesi, di voci e stilemi archetipici che alimentano ogni atto di
scrittura ed ogni immagine futura di leggibilità a posteriori. Incanti
alchemici, matrici cabalistiche o parabole religiose, molteplici sono le
declinazioni di tale fuoco originario della letteratura.
Soprattutto, si
avvertono echi di Blanchot e del suo Orfeo in questo porre, da parte di
Agamben, un legame inscindibile tra letteratura e mistero, dove al ‘mormorio
infinito’ della lingua nel caso dell’uno,[4] si
sostituisce la parola balbettante del secondo.
Una parola
portatrice, però, di un’esigenza radicalmente semantica. Perché se, come
sottolinea Agamben medesimo, un’esigenza altro non è che l’indicazione
dell’assenza di una possibilità di qualcosa, cui è necessario ovviare, ciò che
la letteratura demanda è, in primo luogo, una riformulazione delle categorie e
dei parametri con cui è stata sinora definita. Una risemantizzazione dei suoi
stessi presupposti, che si dipana agile in un susseguirsi vorticoso –vortice è
del resto sinonimo, nell’omonimo saggio centrale, di potenza – di interrogativi
icastici.
Cosa significa scrivere? Perché si scrive? In nome di che cosa? Dove finisce, se finisce davvero, un libro? Dove inizia? In quanti e quali modi si può leggere?
Porsi tali
domande impone, anzitutto, una riflessione in merito al fare letterario, che
Agamben affida al saggio centrale ‘Che cos’è l’atto di creazione?’. Traendo
spunto dalla definizione di Deleuze per il quale quello di creazione è un ‘atto
di resistenza’, Agamben la problematizza sviluppandola in direzione della
propria concezione di potenza e impotenza. Pertanto, se ‘la potenza è […] un
essere ambiguo, che non solo può tanto una cosa che il suo contrario, ma
contiene in se stessa un’intima e irriducibile resistenza’, ne consegue che, in
letteratura, ‘dobbiamo allora guardare all’atto di creazione come a un campo di
forze teso tra potenza e impotenza’.[5] Infatti,
leggere l’atto di creazione letteraria come, al contempo, potenza e impotenza,
consente, secondo Agamben, di sottrarlo alla convinzione vulgata che esso si
esaurisca in e coincida con l’opera letteraria.
Affrontare tali
quesiti significa perciò ripensare, simmetricamente, tra gli altri, il concetto
stesso e il fondamento ontologico dell’opera, non più concepita come attualizzazione
concreta ed in sé conclusa di una volontà creatrice, bensì quale ‘creatura
ibrida, […] non-luogo in cui la potenza non scompare’.[6]
Il fuoco,
insomma, quale mistero della potenza letteraria che è tale nella propria
impotenza, ovvero nel resistere alla logica univoca e asfissiante della
produzione attualizzante.
E il racconto,
quindi, non solo e non tanto momento di secolarizzazione rispetto a tale
mistero, bensì, richiamando un termine caro ad Agamben, gesto di profanazione
dello stesso.
[Veronica Frigeni]
[1]
Giorgio Agamben, ‘Experimentum Linguae’, in
Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia,
(Torino: Einaudi, 2001), pp. x-xii
[2]
Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto (Roma: Nottetempo, 2014), p. 59
[3]
‘Il fuoco e il racconto, il mistero e la storia sono i due elementi indispensabili
della letteratura’. Ibid., p. 14
[4]
Maurice Blanchot, Il passo al di là (Genova: Marietti, 1989), p. 83
[5]
Agamben, Il fuoco, p. 46
[6]
Ibid., p. 98