09/07/14

Gianluca Cinelli, LA NUOVA MATTINA


["On the eve of that morning, nature was just barely there". (Dublin 2014). Foto Rb]

La festa al piano inferiore proseguiva fra il delirio dei canti annaffiati di spumante, la musica dell’orchestrina che infaticabile suonava ballabili vecchi e nuovi, e il vociare che ondeggiava nel grande salone. La mezzanotte era passata da più di quaranta minuti, i brindisi frenetici avevano lasciato calici vuoti sparsi ovunque. La luce aspra che imbiancava il grande scalone era indiscreta, nemmeno un’ombra riusciva a nascondersi negli angoli degli scalini. Linda stava in piedi immobile sul primo in alto, sola sul ciglio del corridoio che portava ad altre stanze da dove provenivano voci confuse, risa, schioccar di bocce da biliardo, musica jazz, tintinnio di ghiaccio nei bicchieri. Nei recessi dove la villa si faceva labirinto, qualche coppia s’era appartata disperdendo le proprie tracce nel dedalo dei corridoi bui. Ogni tanto qualcuno passava barcollante accanto a Linda e portava sulla faccia sfatta un sorriso ebete e sereno. Il salone a pianterreno adesso s’andava chetando, su un divano un grappolo di corpi si crogiolava al caldo contatto della pelle come un groviglio di lucertole al sole, senza pensieri. Domani non avrebbero ricordato quasi niente. Una nuvola di fumo galleggiava torbida a mezz’aria e nel centro, sui mosaici, ancora si ballava.

Linda era accecata dalla luce cruda in cima allo scalone. La testa ronzava e le gambe sembravano troppo molli per reggere e troppo rigide per muoversi, così la mano stringeva in modo convulso il pomello di ottone in cima alla ringhiera, tanto che l’anello di Fabio le faceva male premendo contro il dito. Fabio era sotto, parlava con alcuni giovani, tutti con le mani in tasca e il nodo della cravatta allentato, gli occhi lucidi e la voce roca. C’era anche una ragazzina rossa, con la testa reclinata da un lato e gli occhi grandi, Fabio parlava e rideva, era sicuro di sé e bello, la linea della mascella diritta e gli zigomi alti che incorniciavano il naso elegante, teneva i pollici nei taschini del gilè. Sembrava soffiare con arroganza le parole sul viso di lei, come fumo di sigaretta. Linda non ce l’aveva con la ragazzina, nemmeno con lui. Li guardava da lontano, anche i suoni della festa sembravano raggiungerla appena in quella distanza. Sfilavano accanto a lei donne dondolanti, tutte profumo e riflessi di seta, uomini caracollanti, i capelli gelatinati, che lasciavano dietro di sé una scia di alcol e talvolta un filo acre di fumo dalla sigaretta accesa fra le labbra. Nessuno le badava. Fabio la guardò per un istante da sotto in su, senza smettere quel sorriso che non era per lei. Prima della festa avevano avuto un’ultima discussione, fredda, a vuoto. Senza accuse, senza recriminazioni, senza rivendicazioni, s’era trattato quasi d’un commiato. Non s’aspettavano più niente l’una dall’altro, semplicemente erano andati giorno dopo giorno alla deriva in direzioni diverse e questa sera, prima di uscire, se l’erano detto pacatamente, come si può parlare di un viaggio da fare, più in là, quando sarà il momento.

Linda lo osservò e vide fra loro galleggiare i ricordi degli ultimi cinque anni, morti, rovesciati sulla pancia. Gli restituì un sorriso triste mentre iniziava a scendere così lentamente che Fabio l’aveva già dimenticata quando toccò terra. Lei sfilò via leggera, l’abito nero l’avvolgeva come un guanto. Linda era bella e fresca era la sua pelle, che il pallore faceva apparire fragile, mentre i capelli scuri e gli occhi luminosi le conferivano una forza di carattere che tradiva anche il passo lungo e sicuro delle gambe ben modellate sotto la stoffa aderente. Si versò un cointreau e uscì sul porticato, dove aleggiava l’aroma dolceamaro dei ginepri, e sentì con un brivido la mano della notte posarsi leggera sulla pelle nuda delle braccia e delle spalle. Una coppia parlava sommessamente nell’ombra, era visibile soltanto la macchia chiara dell’abito della donna. Il cielo, tornato limpido dopo i bagliori della mezzanotte, era freddo e chiaro. Il grande giardino era immerso nel buio, il viale lo tagliava leggermente illuminato dai lampioni fino al cancello, che s’intuiva fra le due alte pareti picee delle siepi di bosso. Libertà, pensò Linda con fatica, e mandò giù in un sorso il bicchiere.

La villa si allontanava sempre più alle spalle, il vocio e la musica si smorzavano nel silenzio della notte in cima al colle, finché Linda si ritrovò sola sulla strada sotto la luce fioca dei radi lampioni che illuminava. I suoi passi risuonavano leggeri fra i giardini silenziosi e le case dove qualche finestra era ancora accesa. Linda proseguì senza sapere dove, svoltando fra le stradine interne, tutte uguali, senza pensieri, finché in un piccolo slargo riconobbe l’insegna di un locale, fuori c’era gente che fumava e parlava tranquillamente. La sala era calda e umida, illuminata fiocamente, l’ambiente scuro, di legno alle pareti con quadri, stampe, specchi opachi, un veliero di legno polveroso, l’aria era dolciastra di birra. C’era poca gente, al banco degli uomini discorrevano con gli occhi lucidi e la voce impastata. Uno di questi, sui cinquant’anni, le spalle larghe, alto, un gran naso solido, le sopracciglia folte e scure che incorniciavano gli occhi blu, se ne stava in disparte e osservò l’abito da sera e la fede sul dito sottile di Linda mentre si sedeva su uno sgabello, ai piedi del quale stava sdraiata una cagna nera che la guardò da sotto in su e scodinzolò appena. Linda la carezzò sulla testa e sulle guance, proprio sotto le orecchie, e la bestia strizzò gli occhi per il piacere.

“Adesso non se la leva più di torno”, gli disse l’uomo con voce profonda. Linda si voltò a guardarlo, aveva una cicatrice sul mento che finiva sulla guancia sinistra.

“È sua?”

“Le do da mangiare se me ne chiede, può dormire nel mio giardino se lo vuole. Ma è libera di andarsene in ogni momento”.

“Non si direbbe una vita da cani”, pensò Linda a voce alta. Aveva voglia di bere, ma si accorse di aver lasciato la borsetta alla villa.

“Offro io”, disse l’uomo, “se mi permette”.

“Grazie, ma leggero, che già la testa mi gira”.

“Non s’entra in un bar in una notte come questa per star leggeri, non le pare?”

“Non lo so più, che cosa mi pare e cosa non mi pare”, rispose Linda perplessa toccandosi inavvertitamente la fede.

“Se ci beve su, intanto ci pensa. Se non ha fretta”.

“No, non c’è fretta”, disse Linda.

Dopo un poco il barista le porse un bicchiere pieno di un cocktail rosato.

“Gliel’ho preparato leggero”, disse il giovane. “Speciale della casa. Buon anno”.

Linda bevve in silenzio, vagando con lo sguardo nella sala. Non sembrava neanche la notte di Capodanno, tutti erano tranquilli e sobri, intime le conversazioni. Linda aveva deciso di voltare le spalle a una relazione decadente, normale se vista da fuori, ma dentro vuota come un albero marcio in cui non scorreva più il fluido rinfrescante della vita. Fabio frequentava altre persone, altre donne, forse fra queste v’erano anche quelle con cui soddisfaceva la voglia che non aveva invece più di Linda. Della vita di Fabio lei non conosceva più niente. La sua stessa le pareva lontana, come quella di un’altra, incomprensibile. Era rimasto un affetto pallido fra loro, ma di emozioni non avevano nemmeno più memoria. Linda non poteva aspettare più, non poteva trascinare nell’attesa i giorni grigi di una vita vissuta quasi in letargo, attendendo chissà cosa, un incontro, una promessa, una speranza. Di colpo, una mattina, l’aveva capito dopo giorni di strano malessere, durante i quali lo specchio le aveva restituito un volto strano, sfiorito e stanco, eppure più netto e forte, per qualche ragione che non aveva lì per lì compreso. Poi era trascorso il Natale con il consueto carosello di parenti e amici, le compere, i preparativi, i silenzi improvvisi e l’atopia di Fabio, sempre più frequente, che scambiava tutto il giorno messaggi con il suo telefono con un mondo da cui Linda era stata espulsa. Il risveglio l’aveva impaurita all’inizio, ma presto aveva sentito crescere una forza d’animo, una chiarezza di pensieri che la lasciava talvolta sfinita e dolorante nella testa e nel petto. Con queste parole, senza guardarlo, s’era presentata allo sconosciuto, che non disse niente e strinse soltanto le lebbra annuendo.

La vita l’aveva sorpresa, trascinandola in questo bar sperduto. L’alcol le scaldava il sangue e distendeva i muscoli. Inclinandosi tra lo sgabello e il banco, dove aveva puntato un gomito, Linda posò languidamente la testa sulla palma della mano. Di lì guardava lo sconosciuto e non diceva niente. L’altro ricambiava lungamente lo sguardo, come un vecchio amico. Un calore benefico si spanse per tutto il corpo, Linda sentiva avvamparsi il volto, e non era imbarazzo né vergogna, né lo speciale della casa. Era piuttosto un’emozione nuova, anzi, rinnovata. Ricordava di aver vissuto in altro tempo questo sentimento di pienezza e di struggimento, ma poi aveva dimenticato tutto. Questo vigore, che si spandeva sulla gola e sul petto, sulle gote e sulle braccia, era la vita stessa che fluiva impetuosa, restituita. Linda finalmente sorrideva, con tutto il volto.

Poi venne il panico che la sopraffece, lo sentì dapprima come un nodo duro nel ventre, poi lo sentì premere in alto contro il costato, impedirlo, come se con quella vita fosse emersa dalle profondità del suo essere anche una forza oscura e caotica che cercava di uscire, che voleva vivere. Allora vide il proprio terrore specchiato nel volto e negli occhi dello sconosciuto. Il bicchiere si rovesciò sul banco, Linda balzò in piedi e sentì la nausea salirle in testa, il volto dell’uomo sembrava storcersi e deformarsi in un ghigno demonico, e lei fuggì spaventando la cagna che s’era appisolata ai suoi piedi. Ritrovò la strada con fatica, ma all’aperto si era calmata respirando profonde boccate di aria fredda. La villa adesso era buia, non sapeva che ora fosse, la notte era profonda e tutto taceva. Tutti dovevano essere andati via da un pezzo. Com’era diversa senza la luce, senza la musica. Il giardino nero era un ventre vuoto. Il senso di colpa l’assalì, poi venne la disperazione, Linda cadde in ginocchio singhiozzando violentemente e vi rimase a lungo, lasciando che lentamente colasse fuori quel groppo di vita morta che l’opprimeva. Come se ad abbandonarla fosse il suo stesso sangue, Linda si lasciò scivolare con la schiena contro le sbarre gelide del cancello, e con pensieri affilati adesso prese a recidere con alti gemiti di dolore gli ultimi filamenti, finché finalmente quella fu libera di scorrer via. Sfinita, guardò l’immobilità della notte, interrotta solo dal passaggio muto di un gatto che si sedette imperturbabile dall’altro lato della strada e la guardò con i suoi grandi occhi luminescenti. Linda fissava l’esile bestia dall’immensa lontananza, dove giaceva al buio e i pensieri fiochi rimbombavano come battiti d’ali nere. Proprio queste la riportavano però verso l’alto, verso l’imboccatura dell’incavo, verso quegli occhi luminosi che l’attraevano irresistibilmente. Lassù la bestia sedeva imperscrutabile come una divinità e Linda riemerse, scuotendosi confusa. Il gatto era sparito e la notte, fredda e odorosa di erba umida, l’avvolgeva gelandola e facendola tremare. Pensò che forse non era troppo tardi, che poteva ancora farcela, che poteva ancora tornare indietro, e una frenetica forza s’impossessò di lei facendola balzare in piedi e correre fino a perdere il fiato.

Il bar era ancora aperto, ma non c’era più nessuno fuori, la piazzetta era deserta e addormentata. I passi di Linda risuonavano leggeri e precipitosi, avanzava con la testa china come una penitente. Dentro soltanto due lampade erano ancora accese, e poco più d’un chiarore erano i coni gialli sui muri. Il caldo umido e dolciastro l’avvolse come una coperta e fermandosi davanti a uno degli specchi opachi Linda vide due righe nere di trucco sciolto che le solcavano il viso. Distante, immerso nella semioscurità della sala, sopra la spalla vide rispecchiata la sua ampia figura. In piedi, era volto verso di lei e pareva sorpreso. Passandosi la mano sul viso Linda andò da lui, lentamente, e quando gli fu davanti sorrise soltanto. Gli occhi blu dell’uomo erano quieti e profondi.

“Sono contento di rivederla”, le disse. “Credevo che non sarebbe più tornata”.

“Anch’io. Non l’ho nemmeno ringraziata”.

“L’ha appena fatto. E adesso? Che farà?”

“Non lo so”.

“Ci penserà domani mattina”.

“È già mattina”, disse Linda scuotendo la testa per lo sconforto.

Lui tacque e guardò la cagna che ai piedi dello sgabello li scrutava, e pareva aver capito tutto. Il barista intanto aveva fatto su le sedie e gettava in terra lo straccio.

“Ho un divano e una coperta”, disse l’uomo. “Domani saprà cosa fare”.

“Ma… a malapena la conosco…”

“Che importa? Non le basta conoscere se stessa?”

Linda sospirò e annuì, sentendosi sollevata.

“Magari domani mi dirà come si chiama”, disse l’uomo mentre uscivano. Il barista li salutò con la testa mentre strizzava lo straccio nel secchio, poi borbottò qualcosa con la sigaretta tra i denti. La cagna nera li seguì due passi più dietro, e quando fu all’aria aperta fiutò un poco la notte e rimase sul marciapiede, un’ombra fra le ombre, e pareva che ridesse.