["On the eve of that morning, nature was just barely there". (Dublin 2014). Foto Rb]
La festa al piano inferiore proseguiva
fra il delirio dei canti annaffiati di spumante, la musica dell’orchestrina che
infaticabile suonava ballabili vecchi e nuovi, e il vociare che ondeggiava nel
grande salone. La mezzanotte era passata da più di quaranta minuti, i brindisi
frenetici avevano lasciato calici vuoti sparsi ovunque. La luce aspra che
imbiancava il grande scalone era indiscreta, nemmeno un’ombra riusciva a
nascondersi negli angoli degli scalini. Linda stava in piedi immobile sul primo
in alto, sola sul ciglio del corridoio che portava ad altre stanze da dove
provenivano voci confuse, risa, schioccar di bocce da biliardo, musica jazz,
tintinnio di ghiaccio nei bicchieri. Nei recessi dove la villa si faceva
labirinto, qualche coppia s’era appartata disperdendo le proprie tracce nel
dedalo dei corridoi bui. Ogni tanto qualcuno passava barcollante accanto a
Linda e portava sulla faccia sfatta un sorriso ebete e sereno. Il salone a
pianterreno adesso s’andava chetando, su un divano un grappolo di corpi si
crogiolava al caldo contatto della pelle come un groviglio di lucertole al
sole, senza pensieri. Domani non avrebbero ricordato quasi niente. Una nuvola
di fumo galleggiava torbida a mezz’aria e nel centro, sui mosaici, ancora si ballava.
Linda era accecata
dalla luce cruda in cima allo scalone. La testa ronzava e le gambe sembravano
troppo molli per reggere e troppo rigide per muoversi, così la mano stringeva in
modo convulso il pomello di ottone in cima alla ringhiera, tanto che l’anello
di Fabio le faceva male premendo contro il dito. Fabio era sotto, parlava con
alcuni giovani, tutti con le mani in tasca e il nodo della cravatta allentato,
gli occhi lucidi e la voce roca. C’era anche una ragazzina rossa, con la testa
reclinata da un lato e gli occhi grandi, Fabio parlava e rideva, era sicuro di
sé e bello, la linea della mascella diritta e gli zigomi alti che
incorniciavano il naso elegante, teneva i pollici nei taschini del gilè.
Sembrava soffiare con arroganza le parole sul viso di lei, come fumo di
sigaretta. Linda non ce l’aveva con la ragazzina, nemmeno con lui. Li guardava
da lontano, anche i suoni della festa sembravano raggiungerla appena in quella
distanza. Sfilavano accanto a lei donne dondolanti, tutte profumo e riflessi di
seta, uomini caracollanti, i capelli gelatinati, che lasciavano dietro di sé una
scia di alcol e talvolta un filo acre di fumo dalla sigaretta accesa fra le
labbra. Nessuno le badava. Fabio la guardò per un istante da sotto in su, senza
smettere quel sorriso che non era per lei. Prima della festa avevano avuto
un’ultima discussione, fredda, a vuoto. Senza accuse, senza recriminazioni,
senza rivendicazioni, s’era trattato quasi d’un commiato. Non s’aspettavano più
niente l’una dall’altro, semplicemente erano andati giorno dopo giorno alla
deriva in direzioni diverse e questa sera, prima di uscire, se l’erano detto
pacatamente, come si può parlare di un viaggio da fare, più in là, quando sarà
il momento.
Linda lo osservò e vide
fra loro galleggiare i ricordi degli ultimi cinque anni, morti, rovesciati sulla
pancia. Gli restituì un sorriso triste mentre iniziava a scendere così lentamente
che Fabio l’aveva già dimenticata quando toccò terra. Lei sfilò via leggera, l’abito
nero l’avvolgeva come un guanto. Linda era bella e fresca era la sua pelle, che
il pallore faceva apparire fragile, mentre i capelli scuri e gli occhi luminosi
le conferivano una forza di carattere che tradiva anche il passo lungo e sicuro
delle gambe ben modellate sotto la stoffa aderente. Si versò un cointreau e
uscì sul porticato, dove aleggiava l’aroma dolceamaro dei ginepri, e sentì con
un brivido la mano della notte posarsi leggera sulla pelle nuda delle braccia e
delle spalle. Una coppia parlava sommessamente nell’ombra, era visibile soltanto
la macchia chiara dell’abito della donna. Il cielo, tornato limpido dopo i
bagliori della mezzanotte, era freddo e chiaro. Il grande giardino era immerso
nel buio, il viale lo tagliava leggermente illuminato dai lampioni fino al
cancello, che s’intuiva fra le due alte pareti picee delle siepi di bosso.
Libertà, pensò Linda con fatica, e mandò giù in un sorso il bicchiere.
La villa si allontanava
sempre più alle spalle, il vocio e la musica si smorzavano nel silenzio della
notte in cima al colle, finché Linda si ritrovò sola sulla strada sotto la luce
fioca dei radi lampioni che illuminava. I suoi passi risuonavano leggeri fra i
giardini silenziosi e le case dove qualche finestra era ancora accesa. Linda
proseguì senza sapere dove, svoltando fra le stradine interne, tutte uguali, senza
pensieri, finché in un piccolo slargo riconobbe l’insegna di un locale, fuori c’era
gente che fumava e parlava tranquillamente. La sala era calda e umida,
illuminata fiocamente, l’ambiente scuro, di legno alle pareti con quadri,
stampe, specchi opachi, un veliero di legno polveroso, l’aria era dolciastra di
birra. C’era poca gente, al banco degli uomini discorrevano con gli occhi
lucidi e la voce impastata. Uno di questi, sui cinquant’anni, le spalle larghe,
alto, un gran naso solido, le sopracciglia folte e scure che incorniciavano gli
occhi blu, se ne stava in disparte e osservò l’abito da sera e la fede sul dito
sottile di Linda mentre si sedeva su uno sgabello, ai piedi del quale stava sdraiata
una cagna nera che la guardò da sotto in su e scodinzolò appena. Linda la
carezzò sulla testa e sulle guance, proprio sotto le orecchie, e la bestia strizzò
gli occhi per il piacere.
“Adesso non se la leva più
di torno”, gli disse l’uomo con voce profonda. Linda si voltò a guardarlo,
aveva una cicatrice sul mento che finiva sulla guancia sinistra.
“È sua?”
“Le do da mangiare se me
ne chiede, può dormire nel mio giardino se lo vuole. Ma è libera di andarsene
in ogni momento”.
“Non si direbbe una vita
da cani”, pensò Linda a voce alta. Aveva voglia di bere, ma si accorse di aver
lasciato la borsetta alla villa.
“Offro io”, disse l’uomo,
“se mi permette”.
“Grazie, ma leggero, che
già la testa mi gira”.
“Non s’entra in un bar in
una notte come questa per star leggeri, non le pare?”
“Non lo so più, che cosa
mi pare e cosa non mi pare”, rispose Linda perplessa toccandosi
inavvertitamente la fede.
“Se ci beve su, intanto ci
pensa. Se non ha fretta”.
“No, non c’è fretta”,
disse Linda.
Dopo un poco il barista le
porse un bicchiere pieno di un cocktail rosato.
“Gliel’ho preparato
leggero”, disse il giovane. “Speciale della casa. Buon anno”.
Linda bevve in silenzio, vagando
con lo sguardo nella sala. Non sembrava neanche la notte di Capodanno, tutti
erano tranquilli e sobri, intime le conversazioni. Linda aveva deciso di
voltare le spalle a una relazione decadente, normale se vista da fuori, ma
dentro vuota come un albero marcio in cui non scorreva più il fluido
rinfrescante della vita. Fabio frequentava altre persone, altre donne, forse
fra queste v’erano anche quelle con cui soddisfaceva la voglia che non aveva
invece più di Linda. Della vita di Fabio lei non conosceva più niente. La sua stessa
le pareva lontana, come quella di un’altra, incomprensibile. Era rimasto un
affetto pallido fra loro, ma di emozioni non avevano nemmeno più memoria. Linda
non poteva aspettare più, non poteva trascinare nell’attesa i giorni grigi di
una vita vissuta quasi in letargo, attendendo chissà cosa, un incontro, una
promessa, una speranza. Di colpo, una mattina, l’aveva capito dopo giorni di
strano malessere, durante i quali lo specchio le aveva restituito un volto
strano, sfiorito e stanco, eppure più netto e forte, per qualche ragione che
non aveva lì per lì compreso. Poi era trascorso il Natale con il consueto carosello
di parenti e amici, le compere, i preparativi, i silenzi improvvisi e l’atopia
di Fabio, sempre più frequente, che scambiava tutto il giorno messaggi con il
suo telefono con un mondo da cui Linda era stata espulsa. Il risveglio l’aveva impaurita
all’inizio, ma presto aveva sentito crescere una forza d’animo, una chiarezza
di pensieri che la lasciava talvolta sfinita e dolorante nella testa e nel
petto. Con queste parole, senza guardarlo, s’era presentata allo sconosciuto,
che non disse niente e strinse soltanto le lebbra annuendo.
La vita l’aveva sorpresa, trascinandola
in questo bar sperduto. L’alcol le scaldava il sangue e distendeva i muscoli.
Inclinandosi tra lo sgabello e il banco, dove aveva puntato un gomito, Linda
posò languidamente la testa sulla palma della mano. Di lì guardava lo
sconosciuto e non diceva niente. L’altro ricambiava lungamente lo sguardo, come
un vecchio amico. Un calore benefico si spanse per tutto il corpo, Linda
sentiva avvamparsi il volto, e non era imbarazzo né vergogna, né lo speciale
della casa. Era piuttosto un’emozione nuova, anzi, rinnovata. Ricordava di aver
vissuto in altro tempo questo sentimento di pienezza e di struggimento, ma poi aveva
dimenticato tutto. Questo vigore, che si spandeva sulla gola e sul petto, sulle
gote e sulle braccia, era la vita stessa che fluiva impetuosa, restituita.
Linda finalmente sorrideva, con tutto il volto.
Poi venne il panico che la
sopraffece, lo sentì dapprima come un nodo duro nel ventre, poi lo sentì premere
in alto contro il costato, impedirlo, come se con quella vita fosse emersa
dalle profondità del suo essere anche una forza oscura e caotica che cercava di
uscire, che voleva vivere. Allora vide il proprio terrore specchiato nel volto
e negli occhi dello sconosciuto. Il bicchiere si rovesciò sul banco, Linda balzò
in piedi e sentì la nausea salirle in testa, il volto dell’uomo sembrava
storcersi e deformarsi in un ghigno demonico, e lei fuggì spaventando la cagna
che s’era appisolata ai suoi piedi. Ritrovò la strada con fatica, ma all’aperto
si era calmata respirando profonde boccate di aria fredda. La villa adesso era
buia, non sapeva che ora fosse, la notte era profonda e tutto taceva. Tutti
dovevano essere andati via da un pezzo. Com’era diversa senza la luce, senza la
musica. Il giardino nero era un ventre vuoto. Il senso di colpa l’assalì, poi
venne la disperazione, Linda cadde in ginocchio singhiozzando violentemente e
vi rimase a lungo, lasciando che lentamente colasse fuori quel groppo di vita
morta che l’opprimeva. Come se ad abbandonarla fosse il suo stesso sangue,
Linda si lasciò scivolare con la schiena contro le sbarre gelide del cancello,
e con pensieri affilati adesso prese a recidere con alti gemiti di dolore gli
ultimi filamenti, finché finalmente quella fu libera di scorrer via. Sfinita,
guardò l’immobilità della notte, interrotta solo dal passaggio muto di un gatto
che si sedette imperturbabile dall’altro lato della strada e la guardò con i
suoi grandi occhi luminescenti. Linda fissava l’esile bestia dall’immensa
lontananza, dove giaceva al buio e i pensieri fiochi rimbombavano come battiti
d’ali nere. Proprio queste la riportavano però verso l’alto, verso
l’imboccatura dell’incavo, verso quegli occhi luminosi che l’attraevano
irresistibilmente. Lassù la bestia sedeva imperscrutabile come una divinità e
Linda riemerse, scuotendosi confusa. Il gatto era sparito e la notte, fredda e odorosa
di erba umida, l’avvolgeva gelandola e facendola tremare. Pensò che forse non
era troppo tardi, che poteva ancora farcela, che poteva ancora tornare indietro,
e una frenetica forza s’impossessò di lei facendola balzare in piedi e correre
fino a perdere il fiato.
Il bar era ancora aperto,
ma non c’era più nessuno fuori, la piazzetta era deserta e addormentata. I
passi di Linda risuonavano leggeri e precipitosi, avanzava con la testa china
come una penitente. Dentro soltanto due lampade erano ancora accese, e poco più
d’un chiarore erano i coni gialli sui muri. Il caldo umido e dolciastro l’avvolse
come una coperta e fermandosi davanti a uno degli specchi opachi Linda vide due
righe nere di trucco sciolto che le solcavano il viso. Distante, immerso nella
semioscurità della sala, sopra la spalla vide rispecchiata la sua ampia figura.
In piedi, era volto verso di lei e pareva sorpreso. Passandosi la mano sul viso
Linda andò da lui, lentamente, e quando gli fu davanti sorrise soltanto. Gli
occhi blu dell’uomo erano quieti e profondi.
“Sono contento di
rivederla”, le disse. “Credevo che non sarebbe più tornata”.
“Anch’io. Non l’ho nemmeno
ringraziata”.
“L’ha appena fatto. E
adesso? Che farà?”
“Non lo so”.
“Ci penserà domani mattina”.
“È già mattina”, disse
Linda scuotendo la testa per lo sconforto.
Lui tacque e guardò la
cagna che ai piedi dello sgabello li scrutava, e pareva aver capito tutto. Il
barista intanto aveva fatto su le sedie e gettava in terra lo straccio.
“Ho un divano e una
coperta”, disse l’uomo. “Domani saprà cosa fare”.
“Ma… a malapena la
conosco…”
“Che importa? Non le basta
conoscere se stessa?”
Linda sospirò e annuì, sentendosi
sollevata.
“Magari domani mi dirà
come si chiama”, disse l’uomo mentre uscivano. Il barista li salutò con la
testa mentre strizzava lo straccio nel secchio, poi borbottò qualcosa con la
sigaretta tra i denti. La cagna nera li seguì due passi più dietro, e quando fu
all’aria aperta fiutò un poco la notte e rimase sul marciapiede, un’ombra fra
le ombre, e pareva che ridesse.