Milano,
Feltrinelli, 2013
L’autore chiarifica che gli eventi narrati sono basati su fatti realmente accaduti, anche se li ha modificati nei riferimenti a nomi e
persone e li ha strutturati in forma narrativa.
La narrazione è in prima persona. Il personaggio che
dice io è un figlio, separato dalla generazione dei genitori non solo per i decenni
dell’età anagrafica, ma per una diversa forma di alienazione da quella operaia
del padre: vive, come altri giovani, la disoccupazione, la solitudine in città (a Milano);
e somatizza con crisi di panico e claustrofobia. Scrive di sé:
“Una solitudine. Una grande
solitudine. Non è una solitudine naturale. È questa condizione. Questa città.
Nel vuoto, in assenza di
impiego, a margine di una condizione di costante mancanza di lavoro, costretto
un giorno come telefonista e il giorno successivo come operaio, è la mia
occupazione a garantirmi una presenza nel mondo.
[...] Un termine inesatto,
casa, con cui definire la stanza, quattro metri per tre, in cui trascorro le
mie giornate” (p. 19).
Il padre ha vissuto l’alienazione operaia, la
condizione di crisi esistenziale e sociale della fabbrica, la separazione dalla
Valtellina natia con sei ore al giorno di pendolarismo:
“La fabbrica è una condanna
senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è stato condannato alla fabbrica,
un prima della fabbrica e un poi della fabbrica. E da quel poi, una vita
normale diventa invivibile” (p. 26).
“Gli operai sono una
moltitudine mortificata, umiliata, disprezzata, derisa, guardata dall’alto in
basso, detestata e tenuta in nessun conto. Quando sono in catena non hanno
nemmeno la possibilità di conoscersi. Non è consentito parlare, rivolgere la
parola a un compagno di lavoro, e chi disobbedisce è multato con una trattenuta
in busta paga. L’asta arriva troppo veloce. I tempi li fanno i cronometristi. Ogni
giorno passano a verificarli. E ogni giorno li accorciano.
Rientrato a casa, l’operaio
fatica a ricordare. La vita in fabbrica è inaccettabile” (p. 63).
Infine ha subito l’inquinamento da amianto sul luogo
di lavoro al punto da ammalarsene e morirne:
“Una fibra di asbesto è
sufficiente ad alterare nel tempo la funzione polmonare. Lo dice il medico al
quale ho consegnato gli ultimi esami di mio padre.
[...] Una sola tra le fibre –
centinaia di migliaia – respirate da mio padre in reparto avrebbe potuto, una
volta penetrata nella sua pleura, causarne la morte decine di anni più tardi”
(p. 22).
Il romanzo ripercorre a quadri non cronologici, com’è proprio
del flusso dei ricordi, episodi della vita del padre: non solo la vita da
operaio, ma la parallela attività di pittore, consolazione e forma espressiva che
lenisce la nevrosi da lavoro: “La pittura none esisteva senza la fabbrica, la
fabbrica non esisteva sena la pittura. Se non fosse stato per la fabbrica non
avrebbe avuto la necessità di evadere nella pittura” (p. 45).
Il Comitato sindacale creato dal padre per reagire
alla situazione di malattia mortale provocata dall’amianto si coralizza nelle
ultime pagine attraverso le testimonianze dei parenti degli operai deceduti al
processo che infine mette sotto inchiesta la fabbrica.
Notevole che l’autore rilanci la condizione della
classe operaia in questi anni in cui, modificatosi il modello di sviluppo,
quelle problematiche e quelle lotte sembrano non sempre ricordate e non sempre nella
luce di testimonianza non solo socio-politica ma anche umana:
“In catena non nascevano
amicizie. Il rumore, il regolamento. La turnazione. L’attività politica era l’unico
modo per conoscere altri uomini e altre donne sottoposti ai tempi della
fabbrica.
Le riunioni operaie. Un
suono amico, parole comprensibili. Un progetto da condividere. Il sindacato
metalmeccanico. La riunione, una volta a settimana. L’assistenza sindacale,
fiscale, legale. E il sabato, la domenica, in sezione, aperta anche di sera.
E a guardarli, schierati in
reparto parevano bambolotti, pensava mio padre, tutti uguali, tutti vestiti da
operai, tutti piegati in due, alcuni biondi, alcuni bruni, altri pelati, alcuni
con un berretto di lana, altri con capelli di stoppa, alcuni del tutto
svuotati, storditi, annichiliti dal frastuono e dalla fatica, altri saldi,
estranei a se stessi.
Fuori, ad attendere gli uni
e gli altri l’aurora boreale, la notte perenne, il buio delle ore pomeridiane,
un cielo plumbeo rischiarato appena da un pallido chiarore crepuscolare” (p. 53).
[Roberto Bertoni]