13/04/14

Stefano Valenti, LA FABBRICA DEL PANICO

Milano, Feltrinelli, 2013


L’autore chiarifica che gli eventi narrati sono basati su fatti realmente accaduti, anche se li ha modificati nei riferimenti a nomi e persone e li ha strutturati in forma narrativa.

La narrazione è in prima persona. Il personaggio che dice io è un figlio, separato dalla generazione dei genitori non solo per i decenni dell’età anagrafica, ma per una diversa forma di alienazione da quella operaia del padre: vive, come altri giovani, la disoccupazione, la solitudine in città (a Milano); e somatizza con crisi di panico e claustrofobia. Scrive di sé:

“Una solitudine. Una grande solitudine. Non è una solitudine naturale. È questa condizione. Questa città.
Nel vuoto, in assenza di impiego, a margine di una condizione di costante mancanza di lavoro, costretto un giorno come telefonista e il giorno successivo come operaio, è la mia occupazione a garantirmi una presenza nel mondo.
[...] Un termine inesatto, casa, con cui definire la stanza, quattro metri per tre, in cui trascorro le mie giornate” (p. 19).

Il padre ha vissuto l’alienazione operaia, la condizione di crisi esistenziale e sociale della fabbrica, la separazione dalla Valtellina natia con sei ore al giorno di pendolarismo:

“La fabbrica è una condanna senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è stato condannato alla fabbrica, un prima della fabbrica e un poi della fabbrica. E da quel poi, una vita normale diventa invivibile” (p. 26).

“Gli operai sono una moltitudine mortificata, umiliata, disprezzata, derisa, guardata dall’alto in basso, detestata e tenuta in nessun conto. Quando sono in catena non hanno nemmeno la possibilità di conoscersi. Non è consentito parlare, rivolgere la parola a un compagno di lavoro, e chi disobbedisce è multato con una trattenuta in busta paga. L’asta arriva troppo veloce. I tempi li fanno i cronometristi. Ogni giorno passano a verificarli. E ogni giorno li accorciano.
Rientrato a casa, l’operaio fatica a ricordare. La vita in fabbrica è inaccettabile” (p. 63).

Infine ha subito l’inquinamento da amianto sul luogo di lavoro al punto da ammalarsene e morirne:

“Una fibra di asbesto è sufficiente ad alterare nel tempo la funzione polmonare. Lo dice il medico al quale ho consegnato gli ultimi esami di mio padre.
[...] Una sola tra le fibre – centinaia di migliaia – respirate da mio padre in reparto avrebbe potuto, una volta penetrata nella sua pleura, causarne la morte decine di anni più tardi” (p. 22).

Il romanzo ripercorre a quadri non cronologici, com’è proprio del flusso dei ricordi, episodi della vita del padre: non solo la vita da operaio, ma la parallela attività di pittore, consolazione e forma espressiva che lenisce la nevrosi da lavoro: “La pittura none esisteva senza la fabbrica, la fabbrica non esisteva sena la pittura. Se non fosse stato per la fabbrica non avrebbe avuto la necessità di evadere nella pittura” (p. 45).

Il Comitato sindacale creato dal padre per reagire alla situazione di malattia mortale provocata dall’amianto si coralizza nelle ultime pagine attraverso le testimonianze dei parenti degli operai deceduti al processo che infine mette sotto inchiesta la fabbrica.

Notevole che l’autore rilanci la condizione della classe operaia in questi anni in cui, modificatosi il modello di sviluppo, quelle problematiche e quelle lotte sembrano non sempre ricordate e non sempre nella luce di testimonianza non solo socio-politica ma anche umana:

“In catena non nascevano amicizie. Il rumore, il regolamento. La turnazione. L’attività politica era l’unico modo per conoscere altri uomini e altre donne sottoposti ai tempi della fabbrica.
Le riunioni operaie. Un suono amico, parole comprensibili. Un progetto da condividere. Il sindacato metalmeccanico. La riunione, una volta a settimana. L’assistenza sindacale, fiscale, legale. E il sabato, la domenica, in sezione, aperta anche di sera.
E a guardarli, schierati in reparto parevano bambolotti, pensava mio padre, tutti uguali, tutti vestiti da operai, tutti piegati in due, alcuni biondi, alcuni bruni, altri pelati, alcuni con un berretto di lana, altri con capelli di stoppa, alcuni del tutto svuotati, storditi, annichiliti dal frastuono e dalla fatica, altri saldi, estranei a se stessi.
Fuori, ad attendere gli uni e gli altri l’aurora boreale, la notte perenne, il buio delle ore pomeridiane, un cielo plumbeo rischiarato appena da un pallido chiarore crepuscolare” (p. 53).


[Roberto Bertoni]