[The room ended up being empty (Pisa 2012). Foto Rb]
M’inginocchiai.
- Ma sì! Guarda! – gli gridai, - così!
E toccai con la fronte il
pavimento.
Da
sotto il letto la stanza mi parve ancora più buia. Il pavimento più sobrio e
paradossale, le due voci litiganti consuete. Da sotto il letto stavo ferma con
la fronte, in attesa di tornare allo scoperto. Lo spazio angusto tra la rete e
le piastrelle appiattiva il calore degli arti molli e intorpiditi dalle sue
mani di burattinaio.
Sei mesi prima, mi ero fatta una doccia accurata a casa dei miei. Mi ero depilata e ammantata di crema idratante. I capelli recisi profumavano di gel. Un tocco di fard spolverava gli zigomi. Il bagno era quello piccolo, di domenica orario precena.
Ero
sgattaiolata via nervosa salutando assentemente, in camicia bianca e ciabattine
d’oro. La macchina partì subito e fu un giro lungo, lungo tutta la
circonvallazione, fino alla punta sud della città, infeltrita di pulviscolo.
Parcheggiai
sotto casa di Mario. Suonai il campanello, salii qualche scalino ed entrai al
primo piano. Ci salutammo come fosse la prima volta, mi sollecitò ad
accomodarmi sul divano, mi offrì da bere. Casa bella e buia, molto mascolina.
Lui fumò, io no. Mi parlava con suadenza, e muovendosi nel soggiorno osservava
i miei tratti somatici divenire angolature.
Poi
ci spostammo nel suo studio fotografico. Mario aveva sistemato la luce e la
macchina, predisponendo uno spazio vuoto per le inquadrature. Davanti un muro
raso, mi cambiai d’abito e come un serpente di corallo strisciai tra il
pavimento e la parete, scagliando ovunque il mio profilo. In cerca di alibi, le
mie mani parlarono in silenzio.
Mario
aveva gli occhi grigi bambino, un orecchio a bandiera, il cranio pesante, il
mento marino. Con voce tesa e addomesticata abitava gesti vagamente pedanti. Mi
fece molti scatti, carpendo i miei pregi e punti deboli. Forse erano gli
stessi, distaccati. Mi parlava dolcemente quasi a rilassare sé; pareva euforico
d’attesa.
Dopo
il primo servizio fotografico, mi trattenni ancora un po’ a scambiare frasi
palpitanti. Bevvi ancora un bicchiere e poi Mario mi offrì del cibo ma
rifiutai. Dentro di me amavo la vuotezza di quel soggiorno. Pensava, mi disse
mangiando una banana, che forse mi occorresse “instabilità”. Alla fine ci
salutammo sulle guance, che doveva uscire a recitare: “Ci sentiamo, ti dirò
come sono andate le foto, se hai tempo sarebbe bello posare ancora”. Aleggiai,
sfiorando i lesti gradini verso l’uscita.
Il
secondo servizio fu tra lenzuola bianche. Quando vidi il risultato, una serie
di piccoli negativi su carta lucida, pensai “non sono venuta bene”. Era chiaro
che mi nascondevo, in quel bianco, strusciandomi le guance contro i fianchi.
Non immaginavo niente, non sapevo concentrarmi.
Poi
finimmo a letto, e capii che le foto erano venute bene. Colpa di un Negroni a stomaco
arrendevole, di come Mario mi guardava e naturalmente del primo bacio.
“Vieni,
ti mostro una cosa”, disse conducendomi per mano in soggiorno. Sedetti sul
divano e lui, di spalle, accese lentamente lo stereo e improvvisò uno
spettacolino con una marionetta. Danzando una canzoncina poetica e penosa,
diventava una creatura viva, quel fantoccio sulle dita. La semioscurità del
soggiorno ci velava di disuso. Alla fine del pezzo non applaudii, bensì
scomposi un sorriso, dimostrando malinconia esigente.
Lì
Mario iniziò a rafforzare i suoi sospetti. Ci avrebbe riprovato, a sciogliere
le mie misere riserve, anche dopo che gli mormorai, pietrificandolo, “di te non
mi fido”.
L’ultima
volta che ci incontrammo fu per darmi i negativi degli scatti e qualche stampa
venuta male. Alcune mi piacquero: ero bella ma non banale; come con la
marionetta, col mio corpo Mario era riuscito a disegnare altri corpi.
I
nostri corpi si rincontrarono, quando tese l’amo “se una cosa viene bene, va
rifatta”, abboccai e ci ritrasferimmo nella camera matrimoniale. La penombra
persistette e non fu d’aiuto. Neanche al buio mi fidavo del suo mento
sporgente, i suoi occhi ci allontanavano e le lusinghe mi rendevano passiva.
Mentre percorreva centimetri fino a quel momento osservati solo attraverso l’obiettivo,
sul più bello squillò il campanello. Era Caterina.
La
voce di Mario s’impadronì di lui. Caterina bussava e chiamava in fretta,
pretendeva di entrare. Mario fu morbido a pregarmi di stendermi sotto il
lettone e rimanere nascosta senza muovermi né parlare. Da lì sotto sentii
Caterina addentrarsi paonazza nell’appartamento. “Con chi sei qui”, interrogò
esplorando ciascuna stanza, “sei da solo, cosa stavi facendo” furiosa e
sospettosa. M’immaginai la baciò e sentii la rassicurò “da solo, niente di che,
come stai, sei agitata, ti pare di capitare qui così all’improvviso, sto per
uscire, sai che ho le prove, sono già in ritardo, adesso calmati, è meglio che
vai amore, ti chiamo stasera”. Durante le argomentazioni in camera da letto, le
spiai le unghie smaltate nelle zeppe da ballo, mentre respiravo sottovoce, rete
e materasso. Con mille incoraggiamenti lui la persuase fuori dalla stanza, e
con un bacio zuccherino la espulse.
Mario
attese qualche minuto prima di tornare al mio capezzale al rovescio. Mi
sembrava di vedere il suo mento vibrare panico. Non avevo mai osservato il
mondo da sotto il letto: il pavimento, i sentori, le dinamiche di coppia. Avevo
fatto la brava e meritavo ringraziamenti. Al suo segnale uscii strisciando da
là sotto e lui si scusò. Non se lo aspettava, gli dispiaceva molto, che
situazione. Meccanica e un po’ scomoda, dissi il meno possibile. A quanto pare
Caterina non si fidava di Mario, proprio come me.
Così
fu, che quella fu l’ultima volta. Non servivo più, e l’intrusione del Decameron sulla scena di Casa di Bambola lo aveva reso ligneo
come un burattino, ingessando la nostra natura, i suoi scatti, la mia
instabilità. Chissà a Caterina come sarebbe andata. Io tornai a casa dei miei a
ritroso, sulla macchina gelata da dicembre. Ero magra, ero rasata, una modella
mancata.