Moretti
e Vitali, Milano 2013, pp. 104, euro 12
Dai Discorsi del Tasso, al Discorso
di un Italiano di Leopardi, fino ai vari Discours di Valéry, ai Discorsi
di Ungaretti e degli ermetici, sembra che il “discorso sulla poesia” sia
divenuto una delle forme, quasi uno dei “generi” attraverso cui trova
espressione, nella modernità, l’autocoscienza poetica, il pensiero - sempre illuminante, anzi elemento fondante del linguaggio, che è
cardine di una civiltà, còlto al suo grado più alto di profondità, di
complessità, di ricchezza -
dei poeti intorno alla poesia: dis-corso, corrente mentale, continuo
fluire, nel divenire della storia come in quello della coscienza individuale,
di un pensiero uno nel molteplice, coeso e coerente nella difformità, capace di
avvolgere e di rischiarare, senza rigidità, le pieghe e i chiaroscuri delle
idee e dell’espressione, delle concezioni e dei segni.
Su questa linea si collocano i Discorsi
sulla poesia di Giancarlo Pontiggia, fondamentali per comprendere la poesia
stessa dell’autore.
Sulla scia di alcune celebri riflessioni di
Eliot (quelle intorno al Classico come espressione del massimo grado di
“maturità”, ossia di compiutezzza e di complessità, raggiunto da una data
civiltà), Pontiggia accosta Petrarca a Baudelaire, per la comune capacità di
far gravitare tutta una vastissima e contrastata galassia interiore intorno ad
alcune parole-emblema (“parole-luce”, le chiamava Ungaretti) apparentemente
vuote, neutre, senza carne, eppure, proprio per questo, più traslucide, pure,
limpide, rivelatrici - come i “versi
ermetici e diasprati di Arnaut Daniel” (ed è significativo che Pontiggia citi Petrarca
e il sentimento della solitudine, saggio dell’oggi dimenticato, ma per
molti aspetti illuminante, Quasimodo critico: pagine che confermano l’ostinata,
adamantina persistenza novecentesca, anche nel Quasimodo post-ermetico,
post-bellico, impegnato e realistico, del Petrarca come limbo purissimo ed
assoluto di unità degli opposti, sublimata angoscia, fragile ed indecisa
perfezione).
Chi, poi, apra, dopo le pagine del
saggista, quelle del poeta (in particolare Bosco de tempo), vedrà come
il “vuoto” di tali parole non sia solo quello della sublimazione lirica, dell’astrazione
idealizzante o della rievocazione memoriale, ma anche quello della lontananza,
della perdita, del fantasma vacuo, dell’abbraccio impossibile; analogamente, i
valori, gli idoli, l’idea stessa di classicità paiono sfumare e perdersi nel
precipizio della vie antérieure. “L’estate / era immensa, e ora,
ovunque, è / solo un algido vuoto”. “Tutto / era sospeso in una / quiete lunga,
nel forte / vuoto”. L’ora meridiana - un tempo momento emblematico della
rivelazione del divino - è essa stessa avvolta, nella memoria soggettiva come
nell’immaginario culturale, da un alone di penombra e di lontananza.
Il poeta-critico cerca di colmare quel
vuoto, di ricucire quella ferita, anche attraverso una ritrovata fusione, un
rinnovato equilibrio (dopo tanta, forse troppa, “autonomia del significante”)
di suono e senso, poesia e pensiero, messaggio e forma, alla quale proprio la
stessa coscienza critica è funzionale. “Poesia è ciò che non muta”; “una
fiammante ripetizione” (ancora il poeta, con lo sguardo vòlto ad “un mattino sbiancato
/ da una luce fiammea, fissa”). La parola, al di là delle mode, cerca la
perennità dell’inattingibile, e l’incommensurabilità dell’eterno.
“Poeticamente abita l’uomo”, dice
Heidegger lettore di Hölderlin. E Pontiggia, critico e poeta, cerca quell’essenziale
dimora dell’Essere e della Parola nella domus romana, sede - per quanto
forse illusoria - della “quieta felicità della parola che nomina il mondo,
dandogli un ordine e un senso”.
Come in Luzi, la riflessione, lo
studio, il lavorio, l’ars, non si traducono in artificio e in
cerebralismo; essi sono, anzi, necessari ad una ritrovata naturalezza, ad una
rivissuta physis. “Noi non siamo altro che natura, ma natura sconfitta
dal tempo, ferita dalla vita, umiliata dalla storia”. Una natura che non può
essere se non cultura; un’umanità che non può essere se non humanitas,
al di là di ogni velleitaria rivoluzione, di ogni rovinoso irrazionale
precipizio, e di ogni richiamo ad una non meglio precisata autenticità del
vissuto (tutti aspetti, questi, da cui l’autore prende le distanze anche in Contro
il Romanticismo).
La poesia, la parola poetica, proprio
in quanto studio, pensiero, ricerca, è “archeologia dello sguardo che si volge
indietro, sprofonda in un tempo che pare precedere gli altri e in un certo
senso costituirli” (si pensi al “tempo che precede” di Piersanti, e più in
generale all’idea platonico-cristiana di un principio, di un destino anteriori
e fondanti); è un risalire e racchiudersi entro “una regione di ascolto
silenzioso”, come nei mistici che albergano il silenzio nel cavo dell’anima per
farvi risuonare una voce più alta. Ancora, e per un’ultima volta, il poeta: “Ma
dove per sempre sosta il tuo, tempo, / soffio antico? In un presagio di fiamme,
/ di rami, di verdi / vertigini, forse, o nel tuo oscuro / ordito?”.
E ci si ricorda dell’“alta”, della “cupa
fiamma” di Luzi: del rogo purificatore, lucidissimo e tragico, abissale eppure
in piena luce, che dovrà consumare il “duro filamento d’elegia” per ritrovare,
con il tempo, con la profondità di un passato individuale e storico, che è dell’uomo
come della lingua, un nuovo rapporto, una nuova possibilità di discorso, di
dialogo, un nuovo fluire di linfa; come quel filamento incandescente - ancora
nelle parole di Eliot - attraverso cui la tradizione si trasfonde nel talento individuale, per
mezzo del quale, poi, il valore della Parola si reincarna, si transustanzia, si
comunica, si trasmette - così come, donde il titolo di questo libro, nelle
antiche gare la fiaccola passava di mano in mano, tremula, vorticante, ma
persistente.
E proprio nelle Nemee di
Pindaro, legate al rito sacrificale ed espiatorio per l’Archémoros, il
primo morto, il morto bambino, quell’Ofelte divinizzato dal morso letale del
serpente, la parola poetica dava l’illusione di redimere la morte, di sublimare
la perdita, di rimarginare un’originaria orfanità, risalendo a ritroso - lungo
le trame intrecciate dei rapsòdi che proprio da Zeus “principiavano il canto” -
il cammino percorso e scandito dall’immensità dell’euthupómpos Aión, del
Tempo e dell’Eterno che “guidano sicuri”, sorretti da una linea, da un ritmo,
di un significato che anela a manifestarsi.
[Matteo Veronesi]