05/08/13

Banana Yoshimoto, IL COPERCHIO DEL MARE


2004. Trad. A.G. Gerevini, Milano, Feltrinelli, 2010


Siamo sempre colpiti da una strana discordanza di alcune storie di Banana Yoshimoto: ci pare di notare una certa supponenza, o forse nemmeno questo, forse artificialità nei dialoghi sulla vita tra personaggi o nelle riflessioni che compiono, eppure si tratta in tali casi non di rado di adolescenti o ventenni e la scoperta dei valori può realisticamente verificarsi a quell’età con modalità un che contraffatte, con scoperte di grandi principi e decisioni estreme. Nondimeno, sul piano dei contenuti di tali riflessioni non c’è niente da eccepire: è piuttosto il modo in cui vengono declinate che quanto esse affermano.

Anzi, sono proprio le idee espresse che costituiscono uno dei meriti di Yoshimoto. La vita immaginata, su sfondo zen, come una sequenza di attimi sottolineati da correlativi oggettivi di natura. Le decisioni per il futuro prese sulla base di esperienze che riempiano la vita. La solidarietà, il mondo delle piccole cose, l’aspirazione alla serenità più che al potere e alla ricchezza. L’impegno per portare avanti il futuro anche a raggio circoscritto, anche se ci saranno bivi che imporranno mutamenti nell’impermanenza.

Tutto ciò è tanto più sensato, alternativo e interessante perché nel frattempo non vengono negate le manifestazioni della società di massa, postmoderna, della disintegrazione della famiglia tradizionale.

Coì anche nel Coperchio del mare, il cui intreccio è quello di un’amicizia che si salda tra due ragazze, la narratrice Mari, che ha deciso, almeno per il momento, dopo la laurea, di fermarsi al paese, reagendo alla fuga dei giovani verso Tokyo col portare avanti un progetto costruttivo di apertura di un chiosco di granite in pineta, vicino alla spiaggia; e l’amica Hajime, che trascorre presso la famiglia di Mari un periodo per elaborare il lutto della morte della nonna, scoprendo anche lei frattanto la propria vocazione di designer di bamboline tradizionali redivive e aiutando Mari nel lavoro.

Hajime ha cicatrici provenienti da una grave ustione infantile. Il racconto, dunque, è anche sull’emarginazione e sulla dolcezza e la cura che consentono di superare l’isolamento.

È sulla solidarietà femminile e sulla complicità tra giovani che si trattano da sorelle.

Infine sugli amori, a distanza ma permanente quello di Hajime per un ragazzo coinvolto in operazioni di volontariato internazionale; e più spensierato e volubile, ma non per questo meno intenso e serio, l’atteggiamento di Mari che ha avuto diversi boy-friends.

La morte alle spalle, il mare onnipresente, le piccole cose, l’estate che finisce con l’arrivo delle meduse, l’oblò di un traghetto da cui si intuisce la personalità di una persona. In questo campo la delicatezza e la reazione alla commercializzazione dell’esistenza si impongono.


[Roberto Bertoni]