Temple University Press, Filadelfia, 2005
Kraidy
esamina la saggistica sulla globalizzazione e l’ibridismo nella sua varie
manifestazioni. Include i prededenti, sempre esistiti, di sincretismo (fino dalla
fondazione del termine da parte di Plutarco) e di prestito culturale (citando soprattutto
Bachtin); i concetti, emersi nella modernità, di meticciato di Toumson, la
simbiosi e la “mimicry” di Babha, la “negritude” di Senghor, la
creaolizzazione, nonché le teorie vere e proprie dell’ibridismo di questo
secolo.
In
particolare, rispetto al rapporto tra ibridismo e globalizzazione, punta su due
concezioni: “cultural imperialism”, emerso negli anni Settanta (cfr. Herbert
Schiller, Jeremy Tunstall e Armand Mattelart), che vede la globalizzazione e le
interazioni culturali internazionali come effetto di raffronto e dipendenza nei
confronti della cultura egemone, quella occidentale e più specificamente
statunitense, come si nota nel campo della cultura di massa; e in alternativa quella
della “symmetrical interdependence” di Johanne Galtung, ma anche di un
pluralismo che fa sfumare nell’indifferenziato le critiche al dominio,
ritenendo vantaggioso e positivo per i più l’ibridismo mondializzato, ma in
certi casi difendendo implicitamente in questo modo l’egemonia economica di
certi paesi su altri: “Opinions have coalesced in two competing scenarios: one
views cultural configuration as the transfiguration of worldwide diversity into
a pandemic Westernized consumer culture. The other regards cultural
globalization as a process of hybridization in which cultural mixture and
adaptation continuously transform and renew cultural forms” (p. 16).
Occorre
considerare, sulla scorta di Oliver Boyd-Barrett, che le forze di mercato hanno
provocato “an increasing hybridity of local culture, ever more complex and more
commodified”, allo stesso modo in cui si mercifica la cultura globale nel suo
insieme (p. 9). Oppone a ciò l’idea di “glocalization”, di cui è stato
uno degli artefici, in quanto “rather than consider the local and the global as
opposites, it may be more helpful to think of them as mutually constitutive”
(p. 154). Un esempio è la televisione,
con il suo crescente transregionalismo in sintonia con le esigenze del mercato,
un campo in cui si assiste tanto all’importazione di prodotti delle culture dominanti
globalmente, quanto al loro adattamento locale sul piano dei testi e alla
coproduzione sul piano economico.
La
proposta conclusiva, per superare il monolitismo delle tesi sulla
globalizzazione in quanto imperialismo, ma non escludere il concetto di
dominio, e andare oltre l’ottimismo sfrenato del pluralismo senza cassare l’apporto
costruttivo dell’interazione culturale cosmopolita, è quello di “critical
transculturalism”, che “takes a synthetic view of culture” ed evidenzia la “social
practice”, tenendo inoltre conto degli “active links between production, text
and reception in the moment of cultural reproduction” (pp. 149-50).
[Roberto
Bertoni]