01/08/13

Marwan M. Kraidy, HYBRIDITY, OR THE CULTURAL LOGIC OF GLOBALIZATION



 Temple University Press, Filadelfia, 2005


Kraidy esamina la saggistica sulla globalizzazione e l’ibridismo nella sua varie manifestazioni. Include i prededenti, sempre esistiti, di sincretismo (fino dalla fondazione del termine da parte di Plutarco) e di prestito culturale (citando soprattutto Bachtin); i concetti, emersi nella modernità, di meticciato di Toumson, la simbiosi e la “mimicry” di Babha, la “negritude” di Senghor, la creaolizzazione, nonché le teorie vere e proprie dell’ibridismo di questo secolo.

In particolare, rispetto al rapporto tra ibridismo e globalizzazione, punta su due concezioni: “cultural imperialism”, emerso negli anni Settanta (cfr. Herbert Schiller, Jeremy Tunstall e Armand Mattelart), che vede la globalizzazione e le interazioni culturali internazionali come effetto di raffronto e dipendenza nei confronti della cultura egemone, quella occidentale e più specificamente statunitense, come si nota nel campo della cultura di massa; e in alternativa quella della “symmetrical interdependence” di Johanne Galtung, ma anche di un pluralismo che fa sfumare nell’indifferenziato le critiche al dominio, ritenendo vantaggioso e positivo per i più l’ibridismo mondializzato, ma in certi casi difendendo implicitamente in questo modo l’egemonia economica di certi paesi su altri: “Opinions have coalesced in two competing scenarios: one views cultural configuration as the transfiguration of worldwide diversity into a pandemic Westernized consumer culture. The other regards cultural globalization as a process of hybridization in which cultural mixture and adaptation continuously transform and renew cultural forms” (p. 16).

Occorre considerare, sulla scorta di Oliver Boyd-Barrett, che le forze di mercato hanno provocato “an increasing hybridity of local culture, ever more complex and more commodified”, allo stesso modo in cui si mercifica la cultura globale nel suo insieme (p. 9). Oppone a ciò l’idea di “glocalization”, di cui è stato uno degli artefici, in quanto “rather than consider the local and the global as opposites, it may be more helpful to think of them as mutually constitutive” (p. 154). Un esempio è la televisione, con il suo crescente transregionalismo in sintonia con le esigenze del mercato, un campo in cui si assiste tanto all’importazione di prodotti delle culture dominanti globalmente, quanto al loro adattamento locale sul piano dei testi e alla coproduzione sul piano economico.

La proposta conclusiva, per superare il monolitismo delle tesi sulla globalizzazione in quanto imperialismo, ma non escludere il concetto di dominio, e andare oltre l’ottimismo sfrenato del pluralismo senza cassare l’apporto costruttivo dell’interazione culturale cosmopolita, è quello di “critical transculturalism”, che “takes a synthetic view of culture” ed evidenzia la “social practice”, tenendo inoltre conto degli “active links between production, text and reception in the moment of cultural reproduction” (pp. 149-50).


[Roberto Bertoni]