Adorno e Horkheimer, in Dialettica dell’illuminismo (1944), dichiaravano
il concetto di “industria culturale” preferibile a quello di “cultura di massa”
per evitare equivoci con l’idea di letteratura per le masse in un campo in cui
radicalmente, secondo il pensatore della Scuola di Francoforte, le masse sono l’elemento
strumentale e non i protagonisti di una cultura popolare nata nella società
industriale. Tale cultura popolare si direbbe solo presunta a loro parere.
L’industria culturale
fabbrica e vende prodotti, secondo Adorno, non opere artistiche: esse non
possono far parte della sfera estetica sia per la riproducibilità
commercializzata che le caratterizza, sia per, da un successivo articolo, intitolato
appunto L’industria culturale, pubblicato
nel 1975 postumo, perché insistono su una coincidenza dei messaggi che comunicano
(pubblicità, film, romanzi, fumetti, eccetera) con la realtà, mentre l’arte,
secondo l’interpretazione di Adorno, è sempre consapevole della distanza tra le
due sfere del linguaggio e dei referenti nel mondo dell’esperienza.
Quindi in queste
posizione troviamo prefigurazione, o meglio interpretazioni tempestive, della
società dei consumi per come, dall’osservatorio sociale allora avanzato degli
U.S.A. si sono poi diramate in altre società occidentali.
La standardizzazione dei
prodotti culturali, la falsa utopia dei lieti fine, gli ideali di quietismo
vengono riscontrati in tali prodotti da Adorno e li ritroviamo tuttora.
Nondimeno, ci pare,
quello che Adorno non aveva anticipato accuratamente, ponendosi retrospettivamente
con questo, per dirla alla Eco, tutto dalla parte degli “apocalittici”, era l’evoluzione
dei media sulla percezione del
pubblico e sulle abitudini di composizione degli autori, per cui oggi, ci pare
di poter dire con serenità, il pubblico è consapevole della distanza tra realtà
e immaginazione, salvo poi decidere di cedere alle lusinghe dell’intrattenimento
in ogni caso; e gli autori non possono far finta di ignorare il modo mutato di
porsi in lettura e di costruire narrative tenendo conto della rete, della
televisione e così di seguito, persino della telefonia portatile (dove abbiamo
letto, forse in Giappone? In Corea? che una storia prodotta sotto forma di sms
è di ventata un successo di massa). Del fumetto, che ha oggi una sua storia
anche di prestigio. Pena il totale solipismo nonché pieno snobbismo culturale:
legittimo, certo, ma che isola l’arte contemporanea e la letteratura, venendo
così meno ai suoi scopi educativo e terapeutico, oltre che in definitiva, di
impegno.
[Roberto Bertoni]