1994. Traduzione di G. Amitrano, 1997. Milano, Feltrinelli, 2008
Da una
dichiarazione nel Postscriptum per l’edizione
italiana, l’autrice espone la perplessità di “non essere riuscita a
scrivere questo romanzo come avrei voluto”, ma allo stesso tempo ne difende la “spontaneità”
(p. 305).
In
effetti c’è un certo sapienzialismo un che saccente, che presenta verità dell’esperienza
di vita come se fossero eccezionalmente profonde, un meccanismo che in altri
libri di Yoshimoto è un punto di forza, perché dal quotidiano e dal minimale
emerge il messaggio del vissuto filtrato attraverso il passaggio del dolore;
qui le mediazioni della sprezzatura
sono minori, dunque risulta qualcosa di impacciato.
In
secondo luogo, c’è attenzione verso il soprannaturale, con un personaggio, Yoshio,
il fratello della protagonista Sakumi, che è in grado di prevedere aspetti del
futuro e in contatto coi sogni dei familiari, un po’ alla Isabel Allende. Altri
personaggi hanno simili poteri, c’è un interesse inoltre per il mesmerismo.
Forse questi temi derivano da una moda culturale degli anni in cui il romanzo
fu pubblicato, con un qualche impaccio di affettazione.
Infine
si tratta di una storia lunga, più del conciso che caratterizza Yoshimoto nella
maggioranza dei libri che ha scritto.
I tre
punti di cui sopra potrebbero essere visti come difetti. C’è anche chi ha visto l’intreccio riduttivo come una
negatività [1].
Non ci
pare che si possa parlare veramente di aspetti manchevoli, quanto di una minore
scorrevolezza del solito, del resto siamo a sedici anni fa e un autore impiega
il suo tempo a sviluppare una voce autorevole e un idioletto marcato. Abbiamo
già avuto occasione di notare quanto invece la scrittura di Yoshimoto, proprio
perché si fonda sul quotidiano, riesca a incidere in termini di modernità. Come
se ogni tragedia venisse vissuta senza grandi disperazioni, ma proprio per
questo, perché la vita continua, le incombenze giornaliere non si arrestano, le
pubblicità continuano a bersagliare, il lavoro non si ferma, le conversazioni
dopo un evento drammatico si spingono sul più e sul meno, si ha il senso della
tragedia deprivato di elementi retorici.
In
questo romanzo c’è un elemento in parte derivato, metaletteriaramente, forse, dal
cinema americano, il suicidio di Mayu, la sorella attrice di Sakumi, schiacciata
proprio dal mondo dello spettacolo e preda di un individualismo che la porta ad
autodistruggersi.
La
ribellione anticonformista e la rappresentazione del Giappone volto verso nuovi
modelli di comportamento tra anni Ottanta e Novanta è in quello strato
giovanile che, come nel caso di Sakumi, cerca qualcosa di diverso dalla
tradizione pur restandovi in parte legato. Sakumi ha una storia con l’ex fidanzato
della sorella. Sua madre ha divorziato due volte. E così di seguito.
Uno dei
motivi ricorrenti è la memoria, rappresentata allegoricamente anche in un
evento della fabula: Sakumi perde in
effetti la memoria per un certo periodo di tempo a causa di un incidente.
Ma
soprattutto ci sono le piccole cose, lo scorrere semplice e inafferrabile dei
momenti, scandito da brevi e intense rivelazioni della natura.
NOTE
[1] Cfr.
J. Briscoe nella redazione sull’“Independent” (19-7-1997). Per una recensione
più neutra cfr. Il libro della settimana.
[Roberto
Bertoni]