13/07/13

Tamara Colacicco, GLI ITALIANI DI MUSSOLINI: SQUARCI DI VEDUTE DALL'INGHILTERRA E DALL'ITALIA (1921-1940)





Nel proclamare l’apertura della campagna d’Etiopia, Benito Mussolini non mancò di appellarsi alla sua enfasi da istrione e definì il popolo italiano un “popolo di poeti, di artisti, di eroi / di santi, di pensatori, di scienziati / di navigatori, di trasmigratori” [1].

Non già la suggestiva definizione ricorse nell’imminenza dell’evento bellico, annunciato come la cadenzata e suggestiva avanzata di un esercito di legionari. Ben valse la pena tramutare la citazione in una solenne iscrizione. Fu così che la stessa fu impressa a caratteri cubitali alla vetta di una delle costruzioni architettoniche più ambiziose del regime: nientedimeno quella prescelta per rappresentare, su un piano urbanistico, la potenza del regime e del suo impero e pertanto chiamata ad innalzarsi a fulcro dell’Esposizione universale del 1942: Palazzo della Civiltà a Roma [2].

Ben lungi dal collocarsi alla seconda metà degli anni Trenta, il duplice tentativo di realizzare una rivoluzione antropologica del popolo italiano e la connessa formazione di un nuovo “stereotipo” di cittadino italico, sgorgò a ridosso dei primi decisivi passi del futuro duce sulla scena politica coeva. Ci basta scorrere i trentacinque tomi dell’Opera omnia per renderci conto di quanto la duplice tematica attraversi come un fiume in piena l’intera esperienza politica di Mussolini, per arenarsi solo di fronte agli esiti disastrosi della seconda guerra mondiale.

Il richiamo costante - quasi insistente - su questi argomenti, va connesso al versante “bifronte”, interno ed estero, della propaganda. Su un piano interno, infatti, Mussolini li utilizzò come cavalli di battaglia sguinzagliati contro i precedenti governi liberali. Infatti, è grazie al rinnovamento antropologico compiuto dal fascismo che il popolo italiano “finalmente è uscito dal suo grado di minorità civile in cui fu lungamente tenuto da Governi inetti e imbelli” [3]. È “il fascismo che ha compiuto il miracolo […] – che ha rifoggiato il carattere degli italiani”: “ha formato l’italiano nuovo, l’italiano fiero di sentirsi italiano di fronte a tutti i popoli più o meno civili del mondo” [4].

I “nuovi” italiani di Mussolini sono un “grande popolo […] duro, tenace, volitivo, sistematico” e sono per “temperamento” condotti “a valutare l’aspetto concreto dei problemi, non già le loro sublimazioni ideologiche o mistiche” [5]. Sono, inoltre, una nazione compatta, unita: ponendo fine agli sterili precedenti tentativi, in nome del “miracolo al quale il duce si appellò a Pisa, il punto d’arrivo della “rivoluzion” da lui compiuta è che “dentro i confini” non vi sono “più veneti, romagnoli, toscani, siciliani e sardi: ma solo italiani, solo italiani” [6]. Neanche disperdendosi in mille direzioni, sono “più socialisti, liberali, nazionalisti oppure genovesi, napoletani, milanesi, ma sono italiani e orgogliosi di lor stessi e della patria” che li pone, finalmente, al di sotto di un comune denominatore [7].
 
Sul congiunto versante della propaganda interna ed estera, l’insistenza sul “rilancio” di una nuova immagine degli italiani va spiegata con la necessità di rimuovere “i residuali scetticismi”, provenienti dall’Italia e d’oltralpe, “che preferirebbero l’Italia facilona, disordinata, divertente, mandolinista del tempo antico e non quella inquadrata, solida, silenziosa e potente dell’era fascista” [8].
 
In effetti, se apriamo uno squarcio di veduta sugli italiani di Mussolini dall’Inghilterra, ci accorgiamo che il dittatore era stato troppo a lungo un giornalista per sbagliarsi. Giornalista rimaneva tanto anche “dentro”. Visto da occhi inglesi, il cittadino nostrano apparve come l’espressione di un “popolo tipicamente latino, emotivo e fantasioso, irrazionale” [9]. La Marcia su Roma, poi, fu salutata con un atteggiamento che rasenta il sarcasmo; percepita e dipinta come “esplosione di carattere romantico, sentimentale, risorgimentale di un popolo emotivo sul quale”, a discapito dalla fermezza e della sobrietà volute dal dittatore, hanno peso determinante impulsi come una incontrollata, quasi teatrale passione [10]. Più della portata politica dell’evento, a colpire furono soprattutto le disciplinate parate o, tanto per citare qualche altro dettaglio che carpì l’attenzione, le immagini di donne in lacrime commosse ed emozionate. Strano popolo, per gli inglesi, quello di Mussolini: gente che esprime “il proprio credo politico con il colore di una camicia (ieri erano le camicie rosse di Garibaldi, oggi quelle azzurre dei nazionalisti e quelle nere dei fascisti)” [11]. Quasi un “miraggio” il buon Giolitti che “ha tutte le qualità che in genere mancano” al resto dei connazionali:

“egli è taciturno e discreto; ama fare le cose piuttosto che parlarne; nutre un disprezzo istintivo per la retorica e la demagogia e ha un innato talento per presentare un argomento in maniera lucida e semplice; è pronto e risoluto; ha coraggio ed assoluta fiducia in se stesso. In mezzo a un popolo fantasioso, impulsivo ed eccitabile, egli è calmo e persino flemmatico come un vero anglosassone” [12].

Secondo alcuni testi britannici, circolanti ad uso scolastico, segnalati al dicastero degli Esteri in seguito ad un’opera di censura datata 1935, “the Italian is hot blooded, passionate and quick to resent an injury” [13]. Dai libri rivolti alla formazione dei futuri cittadani britannici emerge anche del nuovo: “the sunny climate makes the Italian indolent, light hearted and gay he loves pleasure and delight in music” tanto che loro “are not very energetic, they tend to get lazy and slack” [14]. Inoltre, “many, especially in Naples, have no permanent dwelling but they spend their lives in the open air, and often prefer begging to honest work” [15]. Sappiamo che, sebbene ambiziosi e articolati, i tentativi di rimuovere gli stralci contenenti siffatte opinioni non riuscirono. Più volte i volumetti in questione furono ristampati: tuttavia se mettiamo a confronto le diverse edizioni conservate alla “British Library” di Londra li ritroviamo, a distanza di anni, sempre là tra le pagine.

Tenace e ostinato Mussolini, però, non si diede per vinto: come una tela su un palcoscenico aprì lui uno squarcio di osservazione sul popolo britannico e lo strumentalizzò da un punto di vista politico. Prospettata l’eclissi di ogni possibilità di buone relazioni col paese, al vasto repertorio dei temi contro la Gran Bretagna aggiunse lo “scontro” tra le peculiarità caratteriali dei due popoli. Specie in relazione alle giovani generazioni, nella propaganda Anti British quello anglosassone si distinse per la mancanza di ambizione e di fervore nella partecipazione alla vita del proprio paese così come per la condotta di una vita sregolata dominata, ad esempio, dall’assunzione eccessiva di alcool [16]. Come tratti distintivi di quello italiano, invece, predominarono l’austerità, l’integrità e la moralità del modello comportamentale seguito. Rende un’idea del distanziamento tra i due popoli anche la loro consistenza in termini numerici. In perfetta rispondenza con i precetti della politica demografica, gli italiani furono presentati come espressione di una nazione potente in quanto feconda, prospera e numerosa. Dal canto suo, la stirpe anglosassone si distinse per la sua inconsistenza e sterilità: in più occasioni le ladies britanniche furono dipinte dalla stampa periodica italiana come “pudiche zitelle” “alquanto attempatelle” [17].
 
La difesa della campagna razziale, poi, fu non di rado giocata facendo perno sulle rispettive discendenze dei due popoli. Alla continuità con la tradizione romana il cittadino inglese contrappone il legame ombelicale con l’immorale e avida razza israelita. Da essa ha ereditato l’avidità, l’instabilità, il nomadismo; caratteristiche che ne fanno un “business man” che non “ha scrupoli” ed è “avido solo di guadagno” [18].

 La visione del popolo italiano come legittima stirpe continuatrice degli illustri antenati costituì un motivo portante anche a proposito delle rivendicazioni imperiali. Già sul finire degli anni venti il fascismo rivendicò la propria naturale propensione verso l’area mediterranea suggellata dalla consolidata espressione latina di Mediterraneo come “Mare nostrum” [19]. Legittimo continuatore della civiltà latina, il popolo di Mussolini ha ereditato doti caratteriali e comportamentali propedeutiche alla gestione di vasti imperi d’oltremare. Dall’antica madre ha appreso lo spirito conquistatore e dominatore ed anche la capacità di imporre giuste leggi sulle popolazioni straniere sottoposte al proprio dominio. L’impero britannico, invece, non si basò “sulla pace e sulla giustizia romane” ma, a conferma della natura infame di provenienza anglosassone, sull’incondizionato “sfruttamento dei sottomessi” [20]. Infatti, “in imperial organization Rome reached a perfection which had never been reached before, and which the British Empire did not even approach. Rome succeded in forging many different peoples into a single people. “Patriam fecisti diversis gentibus unam [21]. Al dominio, il popolo nemico fu indotto da motivazioni opportunistiche e immorali: in primis dalla disonesta “infiltrazione” nell’area mediterranea. Una nota a sé, nel più circoscritto quadro delle relazioni tra fascismo italiano e fascismo britannico, merita poi l’“infondato e antistorico” tentativo di legittimare le proprie conquiste presentandosi come erede dell’Impero romano: tema, questo, che costituirà un importante motivo di allontanamento tra PNF e BUF (British Union of Fascists) [22].

Inaugurata nel 1935, la strategica “manipolazione” dello “scontro” tra le peculiarità caratteriali dei due popoli conobbe una forte impennata durante l’ultimo biennio degli anni Trenta, per toccare la sua vetta più alta nel 1940. In quella funesta occasione la strumentalizzazione si espanse anche su un piano “orizzontale” quando, alla schiera degli inglesi, Mussolini sommò ogni popolo fedele ai principi ispiratori delle democrazie occidentali. Sotto la pressione di questa spinta, le parole pregne di toni d’accusa si ribaltarono sul piano dell’azione e dal balcone di palazzo Venezia il dittatore presentò l’imminente guerra come la “lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra”; come “la lotta dei popoli fecondi e giovani contro i popoli israeliti e volgenti al tramonto” [23]. Con indosso i suoi abiti da istrione, il duce si illudeva così di trovare una “giustificazione politico-antropologica” ad una guerra che la storiografia e l’umanità tutta valuterà ed archivierà come ingiustificabile, da una prospettiva non solo politica, ma anche etica. Figuriamoci antropologica.












[1] Benito Mussolini, Il discorso della mobilitazione, 1935, in Opera omnia, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, Firenze, La Fenice, 1951-1963, vol. 26, p.160. D’ora in poi tutte le citazioni riportate sono, salvo specificazione contraria, di Mussolini.
[2] Per la ‘funzione’ affidata alla costruzione all’interno delle  mire propagandistiche della mostra cfr. Andrea Giardina, Andre’ Vauchez, Il mito di Roma: da Carlo Magno a Mussolini, Roma – Bari, Laterza, 2000, p.234.
[3] Cfr. per l’utilizzo dei temi in questo senso Silvana Patriarca, Italian vices: nation and character from the Risorgimento to the Republic, Cambridge University Press, 2010, p. 133, 136, 141. La citazione e’ tratta da Al popolo di Perugia, 1926, in Opera omnia, cit., vol. 22, p. 228.
[4] Cfr. rispettivamente Al popolo di Pisa, 1926, in Ivi , p.145 e Alle camicie nere ed ai Cittadini di Cagliari, 1926 , in Vomere e spada. Pensieri e massime, a cura di Lena Trivulzio Della Somaglia, Milano, Hoepli, 1936, p. 97.
[5] Vomere e spada, cit., pp. 95-96.
[6] Discorso all’Augusteo, 1921, in Spirito della rivoluzione fascista, antologia degli Scritti e discorsi, a cura di G. S. Spinetti, Milano, Ulrico Hoepli, 1937, p. 67. 
[7] La nuova Italia, 1926, in Opera omnia, cit., p.191.
[8] Citazione in Giovanni Aliberti, Carattere nazionale e identita’ italiana, Roma, Nuova cultura, 2008, p.147. 
[9] Aldo Berselli, L’opinione pubblica inglese e l’avvento del fascismo, 1919-25, Milano, Angeli, 1971,  p.106.
[10] Per la visione del popolo italiano e il tono della stampa britannica cfr. Ivi,  p. 20-24. Vedi anche, sempre in Ivi, pp. 80-86 e per la citazione, p.24.
[11] Cfr. Ivi, p.81.
[12] Cfr. Ivi., p. 41. Citazione di Berselli tratta da The Voice of Italy. From Red Terror to White, in «The Times», 14 Maggio 1921.
[13] T. Alford Smith, A geography of Europe, 1921, p. 221.
[14] Ibidem e S. Longmans Dudley, The world. A general geography,  1929, p.346.
[15] T. Alford Smith, A geography of Europe, cit. p.221.
[16] Cfr. per le prime caratteristiche citate Evoluzione delle giovani generazioni d’Europa. Gli Inglesi, in L’Eco del mondo, anno II, n. 8, 23 Febbraio, 1935. Per l’uso smodato dell’ alcool suggestiva per immagini e contenuti e’ La Difesa della Razza, anno VI, n.6 , 20 gennaio 1943.
[17] Queste due definizioni sono, in ordine di citazione, in Giovanni Saracino, Premessa a L’Impero Italiano e l’Inghilterra, Milano, Impresa Editoriale Italiana, 1936, p. 68 e Periplo londinese, in Roma fascista, n. 44, 8 settembre 1938, p. 4.
[18] Periplo londinese, cit.
[19] Rapporti con i paesi del Mediterraneo, in Roma fascista, 24 Marzo 1929, n. 12, p. 3. Per il medesimo concetto vedi anche I giovani e l’Italia d’oltremare, in Ivi, p.5.
[20] Giovanni Saracino,  Premessa a L’Impero Italiano e l’Inghilterra, cit, p. 8.
[21] Spirit of two people, in Fronte Unico, 25 Novembre 1937, p. 5.
[22] Per l’accusa mossa a proposito dell’espansione in area mediterranea e citazione in virgolette riportata vedi Giovanni Saracino, L’Impero italiano e l’Inghilterra, cit. p. 64. Per una panoramica chiara ed efficace dei rapporti tra PNF e BUF , invece, Claudia Baldoli, Exporting fascism. Italian Fascists and Britain’s Italians in the 1939s, Oxford - New York, Berg, 2003. Vedi in particolare le pp. 43-58, dove la studiosa delinea anche un quadro ideologico e tematico dei punti di vicinanza, divergenza e progressivo allontanamento tra i due partiti.
[23] Benito Mussolini, Popolo italiano! Corri alle armi, 1940, in Opera omnia, cit., vol. 29, pp. 404.