[Kim Ku's Burial Place. (Yochang Park, Seoul 2013). Foto Rb]
1976. In Occultismo, stregoneria e mode culturali. Firenze, Sansoni, 1982, pp.
35-50.
Anche nella sfera di Thánatos, Eliade si rifa ad una delle
sue tesi centrali, il mito dell’eterno ritorno. Infatti nota che “nella maggior
parte delle culture tradizionali l’avvento della morte si presenta come un
disgraziato accidente verificatosi agli inizi […], la morte è la conseguenza di
qualcosa che è accaduto in un’epoca primordiale” (p. 36).
Entrando più nello specifico,
solo pochi miti spiegano la morte come conseguenza della trasgressione di un
comandamento divino: “più comuni sono i mii che attribuiscono la mortalità
all’atto crudele e arbitrario di qualche essere demoniaco”, o “come un
accidente assurdo e/o come la conseguenza di una scelta sciocca, di una
stupidaggine degli antenati mitici” (p. 36).
A parere di Eliade, in tutte le
culture la morte è “una seconda nascita, l’inizio di un’esistenza nuova,
spirituale”, una seconda nascita non biologica, ma da crearsi ritualmente: “in
questo senso la morte è un’iniziazione, l’introduzione di un nuovo modo di
essere” (per esempio la resurrezione): da ciò consegue che, sul piano
psicologico, “qualsiasi passaggio da un modo di essere a un altro implica
necessariamente una morte simbolica. Morire è la condizione preliminare per
rinascere in uno stato nuovo, superiore” (p. 41). Se “interpretata come
passaggio a un altro modo – a un modo superiore – di esistenza, la morte
diventa il modello paradigmatico di ogni mutamento significante della vita
umana” (p. 43).
Molte culture ritengono che i
morti tornino in vita, in ogni caso che siano presenti tra i vivi dopo la morte
(sotto forma di spiriti, fantasmi, ecc.), per cui si determina un’equivalenza
metaforica tra morte e vita: “questo processo paradossale rivela una nostalgia
e forse la segreta speranza di raggiungere un livello di comprensione in cui
vita e morte, corpo e spirito risultino aspetti e stadi dialettici di un’unica,
intima realtà” (pp. 45-46).
Si tratta di un “paradosso della
traslazione reciproca tra simboli e metafore della vita e simboli e metafore
della morte” (p. 46), per cui si esplorano continuamente, nel quotidiano, nei
sogni e così via, aspetti della morte rituale o reale (il gioco della campana
dei bambini, per esempio, è la ripetizione di un gioco iniziatico in cui si
impara a uscire da un labirinto), i proverbi (partire è un po’ morire), l’andar
via, le geografie della morte presenti in letteratura. Qualsiasi “immersione
nel buio, qualsiasi irruzione di luce rappresenta un incontro con la morte. Lo
stesso può dirsi di qualsiasi esperienza di alpinismo, volo, nuoto subacqueo, o
per qualsiasi viaggio, scoperta di un paese sconosciuto e perfino per incontri
significativi di uno straniero” (p. 48), tutti elementi reperibili nelle
configurazioni dell’aldilà rinvenibili nei viaggi mortuari mitici, in universi
precedentemente conosciuti in sogno e nella fantasia.
Per quanto assolutizzante, questo
saggio mette in rilievo l’enantiodromia della morte e della vita; e il
rinnovamento, o non dispersione, derivante dalla tendenza entropica
dell’universo e al suo interno degli esseri umani.
[Roberto Bertoni]