["When stone is marvel" (Paris, 2012). Foto Rb]
57.
in un
mare di vocabolo l’addio
ripiega
le nuvole come lenzuoli
il cielo
zoppo terso vanitoso
diverbio
d’aquile al silenzio.
tu
domani tornerai letizia
di una
biologia di corsa
verso la
sosta della nuca finalmente
dove
nessuno si faccia previsto.
in pace
sulla rendita del tuono
rimane
il passero che digiuna neve
la
giunta comunale delle rotte
strabiche.
invano si arresterà
la fuga
delle cantiche verso il poema
dotto,
qui nulla è fatto ad immagine
e
somiglianza di dio paterno. la forca
ad
inguine di destino sistema il vero.
in pace
nessuna stima di pace
dacché
la cenere bivacca a mo’ di dimora
e la
mossa del soqquadro è solo uno
storto
particolare.
58.
le
farfalle sono lutti appena munti
alla
bellezza del sinodo del vento
dove
nessuno si cimenta più
nell’onda
di pensare le fanfare
fraterne
del paese. sotto comignoli invernali
sta la
rondine indisposta. lo strapazzo del vento
non
ricuce spore. dove sei tu amica
elementare
sotto le trombe della patria?
quale
autunno imbellettò il tuo sguardo
spaurito
fato screditante smog?
fondo il
silenzio che elettrizza gli alberi
mormoro
mia madre che fu botanica
regina
d’intrico le radici.
59.
oso
incappucciare il tempo
per
fingermi morta. sfinimento, cialda
amara
fissato emulo che sono sotto
fanghiglia
d’asma. intorno a me si sparse
la
vittoria del gerundio infelice. oggi aumenta
questa
cicala ladroncella calca. melissa della gioia
perdere
la vita meravigliata stasi
al
pascolo per sempre pur meno senza atomo.
cruda
armonia la madre analfabeta
beata
dentro l’enfasi del ghetto.
sono
morta da presto sotto l’inguine
della
femmina bislacca l’io campione.
Marinella
fui al desco di mio padre
poi
giocatore di scacchi i salti dentro
sacchi
già otturati. non bastò
una rondine
a ristorarmi il viso
dato il
dispaccio della ciocca bianca
ora
avvalori l’agonia mia.
la
coltre marmorea del mio scarto
uccise
giovinezza con i piedi nudi.
60.
erosioni
del fato avverso
quando
da record la ruota
sconquassa
lirici i sì più belli
nel
pianto della cintola lo sfarzo.
mansione
della ciotola morire
con la
stazione nel grembo il nome dato.
l’unità
del sale sfavilla al sole
beffa e
gerundio di un dio villano
nomignolo
di sé senza cattura.
si mina
il conto delle rondini
innocenti,
qui affonda il baratro
del
cielo. in tempi d’acqua stagna
la
visione del pio ascendere
al pizzo
del cipresso dove si avvera
presa
possesso l’inno del silenzio.
sotto
casa il sasso che ti somiglia
fa
acquisti a sé per smaliziare il sogno
che
appena ieri conquistò le scene.
finisce
il mare sotto sabbie anguste
con lo
sterminio in auge di gelo
di
petrolio l’indice sabbioso.
invano
negli albori delle sfingi
si crede
in dio abaco regalo.
61.
avevo un
calice con un abbandono dentro
tutto il
giorno dormivo sul banco
per
scaturigine niente. un gatto randagio
leccava
la mia zattera tanto per consuetudine
raminga.
la giornata trafittura d’ansia
materia
grigia per la foce
dove
s’indirizza un vento blasfemo
assassino
di nidi. in particolare un’afasia
bambina
umettava nei polsi la bontà.
ora un
avvento in tralice mi fa piangere
sempre.
il cimitero dietro l’angolo
mi
perdona le donazioni di niente
quando
un sasso è la meraviglia
d’eterna
vigilia la scuola di schiaffi.
Le strofe precedenti di Soqquadri del pane vieto sono uscite nei mesi scorsi su "Carte allineate".