Kingswood (Surrey, UK), The Windmill Press, 1961.
Diplomatico e docente universitario, Balachandra Rajan (1920-2009)
lascia, con Too long in the West, una
narrativa in parte documentaria del rapporto tra India e Occidente negli anni precedenti
lo sviluppo recente, con elementi di rivendicazione di orgoglio nazionale e di
indipendenza nella conduzione delle strategie di sviluppo e problematiche di
adattamento e disadattamento nel contatto con gli Stati Uniti.
Nalini, la giovane protagonista, appartenente a una
casta privilegiata di bramini e benestante, torna da vari anni di soggiorno
negli USA dove, per desiderio del padre, si è recata per conseguire una laurea
presso la Columbia University. Al suo arrivo alla proprietà terriera, isolata,
della famiglia, viene sottoposta alle modalità di un matrimonio combinato, con
i pretendenti che arrivano da vari luoghi e da diverse condizioni sociali (data
la formulazione dell’annuncio matrimoniale in termini volutamente generici da
parte del padre): un giornalista, un aspirante scrittore, un uomo d’affari e un
biologo americano suo ex compagno di studi.
Quest’ultimo, in particolare, è il tramite del
dibattito, a tratti acceso, sulla differenza di impostazione tra India e i
paesi dell’Ovest più sviluppato. Rimproverato di paternalismo dal più spinto
nazionalista per spingere in direzione di un’evoluzione basata su modelli non
autoctoni; artefice di una battaglia contro la malaria, di fatto cooperante in
buona fede; infine involontario agente di uno scandalo. Rimasto solo con
Nalini, per ragioni non dipendenti dalla loro volontà, ma dai capricci della
natura, per un giorno, al ritorno alla proprietà la ragazza viene accusata di
comportamento immorale dalla comunità del villaggio, guidata dal barbiere Raman.
Per rimediare, prima che la sollevazione si trasformi in sommossa e forse in
tragedia, Nalini accetta di sposare il giorno dopo uno dei pretendenti. Tra la
sorpresa generale sceglie proprio Raman: nella dichiarazione del momento pe
vendetta; ma nell’ultimo capitolo, ambientato anni dopo ed esplicativo, si
rivela una scelta lungimirante, che porta benessere e pacificazione alla zona.
Sebbene il tono del romanzo sia spesso satirico, in
generale questa conclusione, non normalizzante, rileva la creatività
proveniente da una donna emancipatasi ma in grado di inserirsi con originalità
nella tradizione.
La predizione delle prime pagine del romanzo era, dopo
troppi anni in Occidente:
“You won’t fit in. You’ve joined the lost generation,
out of place everywhere and acceptable nowhere. You’ll always be an exile and
an alien, a self-created foreigner, a refugee from yourself. You can’t belong.
You’ll live in two worlds and fall between two stools” (p. 66).
Tale previsione, dunque, non si realizza. Al contrario
Nalini rivela fedeltà al Paese natio pur senza evitare di manifestare anche il
proprio disagio e le difficoltà di risiedervi di nuovo:
“‘I’ll never forget my three years abroad’, she said, ‘but
I grew up in this place. It’s queer and crummy and maddening. When I’m in it I’m
often furious with it. When I leave it then something drops out of my heart. I
can’t forget the smell of its earth and the taste of its water and the
craziness of the house in which I’ve lived and Father’s pomposity and the way
Mother watches over me like a dragon. I simply can’t stand it and I’ve always
belonged to it” (p. 142).
[Roberto Bertoni]