Morte e
memoria. Nota sulla poesia di Neil Novello
“Al principi dal mond / e a la fin da la vita, / ogni nustra
peràula / a vòul dizi ‘mari’“. Questi versi del Pasolini friulano, riportati in esergo alla raccolta poetica di Neil
Novello, Falò de’ rosari [1], suggeriscono immediatamente la necessaria
connessione fra i due versanti (quello poetico e quello saggistico) dell’opera
dell’autore, che proprio di Pasolini si è più volte occupato, specie nell’imponente
volume Il sangue del re [2]. “L’enigma della parola poetica” - vi si legge - “è un organismo di senso equilibrato
tra unità minima significante e il “secret impénétrable”, tra la freddezza dell’espressione
e l’infinità ineffabile del contenuto” (p. 103).
Tanto la poesia
quanto la critica colgono dapprima il segno poetico nel suo valore intrinseco,
nel suo nodo essenziale e vitale di suono e senso - per poi affacciarsi oltre,
gettare uno sguardo al di là dell’immediatezza e della datità del segno, che è
tramite e insieme barriera, veicolo e limite - così come, nella conoscenza e
nell’esperienza, il fenomeno si dà per essere percepito e insieme trasceso,
viene alla luce e insieme rinvia costantemente all’altro, all’oscuro,
al mistero - essendo, in tutto
questo processo, il segno e il gesto poetici tramite e specchio per la
conoscenza del fenomeno, e fenomeno, e oggetto di conoscenza (o fonte di
smarrimento, d’inquietudine, di vertigine) essi stessi.
Fenomeno e segno è,
per eccellenza, la Morte, Soma-Sema-Semeion, Corpo-Sepolcro-Segno; e,
soprattutto, la Morte della Madre - Madre che è Ma’at, matrice e misura,
origine e fine, principio e annullamento, essere che dà alla luce, ma infine si
chiude e si adombra, svanendo, nel suo femminile mistero.
Il rosario del titolo
- simbolo del rito, dell’invocazione, dell’oblazione, e insieme della
ciclicità, del ritorno, del tempo immobile, dell’ossessione rituale - è quello
che il poeta avrebbe voluto, e potuto, strappare dalle dita della defunta, come
talismano salvifico, come simbolo di un ricordo sottratto alla morte - e che,
invece, è stato inghiottito, infine, dal buio della terra, confuso con le
tenebre del nulla.
“Il segreto del
poeta-critico friulano consiste nel sondare ogni vuoto pneumatico, intercettare
il soffio esistente tra la “parola” e la “carne”. Sembra rivelarne il disegno
nello sforzo o nella pulsione di gettare uno sguardo nell’abisso” (p. 119). In
questo sottile interstizio, in quest’esile lembo che si insinua fra il reale e
il dicibile, fra il corpo sofferente fino al martirio e il canto che ne sgorga,
che lo nomina, lo purifica, lo eterna, si muove anche il discorso - così
volutamente lacerato, ellittico, venato di silenzi, iati, respiri spezzati,
nodi impossibili da sciogliere - di Novello poeta.
“Là fuori eco d’anni,
un’ala si stacca
e crolla”.
Il vuoto degli anni
perduti è il vacuo silenzio in cui si libra e vibra la parola.
“Lingua su spersa
bocca
o muti orfani,
per astri e verdi
addii.
Esige un ritorno
al glifo:
là un tu cerca noi”.
Il silenzio dell’indicibile
pare adornarsi e colorarsi di preorganiche, minerali pierreries,
decadenti o ermetiche (si pensi al Luzi di Avorio), di tipiche
sinestesie, psicologiche ed immateriali (“verdi addii”). Ma la ricerca
verticale, tesa, del senso, del significato che sovrastino i labirinti dell’indecifrabile,
sfocia in un anelito al glifo, al logogramma riconoscibile, per quanto forse
difficilmente decifrabile, fissato per sempre, inciso ed incavato nella pietra.
“Stendi su talismano
tu
la voce
e riannoda il tempo”.
Il tu
montaliano è invocato come fonte di un intervento salvifico, che argini la
deriva, la dispersione del vissuto, che rinsaldi e rinnovi, “riannodando il
tempo”, la ricorsività dell’essere, la ciclicità delle esistenze.
“Scrigno d’onici e d’ambre
su per palmo
sii castone in carità”.
L’onyx di
Mallarmé, inanimato ed enigmatico, la preziosa ambra che in Marziale rende
eterno il volo ormai immoto di un’ape, l’anello anch’esso mallarmeano (vedi il
“sonetto della Morta” - “la pierre que mon doigt / Soulève avec l’ennui d’une
force défunte”) sepolto insieme alla Madre: tutti emblemi e tracce di un’ontologia
poetica dell’origine remota, della sorgente prima, dell’oscura aurora, che fra
gli autori più recenti trova riscontro, forse, solo nella poesia di Vitaniello
Bonito, e, più a ritroso, in quella di un Ferdinando Tartaglia o di un Michele
Ranchetti: uno scenario espressivo ed esistenziale, questo, che pare quello di
un Pasolini friulano riletto attraverso Heidegger, Mallarmé, Celan, il loro
linguaggio come specchio oscuro, eppure abbagliante, dell’Essere (e proprio la
celaniana “rosa di nulla, rosa di nessuno”, emblema della Nichtung,
della poesia del Nulla, della Nullesia - inquietante fioritura della
luminosissima tenebra, del Vuoto che cova la pienezza, dell’Abisso da cui
germina l’esistente -, riaffiora, dopo avere ispirato Rosa meridiana,
raccolta scolpita sulle pendici di un irto e vertiginoso vernacolo calabrese,
anche in questo nuovo volume).
Il Graal e il Tao si
fanno simboli, orientali-occidentali, di un sepolto vas spirituale, di
un ricettacolo di respiro e di vita che terra e tenebre, vuoto e lontananza,
sembrano ormai aver saturato come un’orbita vuota. Transitivo-Intransitivo,
Soggetto-Oggetto, personale-impersonale, lo smarrimento dell’identità e del
ricordo si stempera nell’ambiguità del quasimodiano “smemorare”: “Smemorammo in
due, sottoterra”.
I piani temporali si
confondono nell’eterno istante della morte, che annulla d’un colpo ogni passato
e ogni futuro che non si snodino nello spazio, implicito ed inesteso, del
ricordo e del rimpianto; il nevermore di Poe assume la vastità
indefinita del senza tempo.
“Sarà mai la fine di
sempre
e mai fummo, noi
saremo,
saremo noi per sempre”.
È il mai a
segnare la fine irrevocabile del sempre, la morte ad escludere la
possibilità di qualsiasi postuma sopravvivenza, fosse pure solo nell’illusorietà
della memoria - o, viceversa, il sempre non avrà mai fine, l’essere
perdurerà anche nella negazione e nell’esclusione? “Noi saremo”, esisteremo,
assolutamente, indefinitamente, nel futuro dell’eternità - o “saremo noi”, sarà
l’eternità, come dice Mallarmé, a renderci noi stessi, a rivelare, e rivelarci,
appieno la nostra vera essenza, la nostra identità non più menzognera, perché
purificata e resa limpida dalla lontananza e dal ricordo?
Raramente, nella
poesia a me nota, l’ambiguità del linguaggio (l’avverbio - “mai” - che può
essere o meno sostantivato, il pronome, “noi”, che può o meno essere predicato
nominale) è stata altrettanto sapientemente elevata a specchio dell’ambiguità,
della sfaccettatura multiprospettica, insite nelle modalità dell’esistenza e,
soprattutto, del suo annientamento, là dove - come dice Gozzano - “vano è dire
sempre / e vano è dire mai”.
Né si tratta di un
autobiografismo solipsistico, di un narcisistico autocompiacimento. Novello
realizza quella stessa “pulsione mentale a formare un’assoluta comunità martire”
da lui ravvisata in Pasolini (p. 185).
Come nel tragico páthei
máthos, nella comprensione attraverso il dolore, la condivisione quasi
rituale mediata dalla parola letteraria non spegne il dolore, forse neppure lo
attenua, né lo sublima; ma lo tramuta in coscienza, in testimonianza, insomma
in cultura, fossero pure solitarie, eroicamente isolate, nobilmente vane, come
un grido echeggiato dal deserto.
NOTE
[1] Torino, Aragno, 2011.
[2] Cesena, Il Ponte Vecchio, 2007.
[Matteo Veronesi]