Roma, Nottetempo, 2011
Colpisce la scorrevolezza di questa memoria di Mo Yan,
che parte dagli anni Settanta, in una fase di tarda Rivoluzione Culturale, col
narratore in prima persona ancora a scuola, e arriva ai nostri giorni, segnalando
i mutamenti della Cina e chiudendosi non senza tristezza, nonostante il concomitante
tono ironico seguito fino all’ultima pagina, con un tentativo di corruzione, pur
se di piccola entità e da parte di un’amica del narratore, quasi a segnalare
fino a che punto si sono deteriorati certi aspetti della società.
A una recezione occidentale, non può (o forse è un gusto
soggettivo di chi qui scrive) che essere di conforto che gli avvenimenti
biografici siano raccontati come elementi di un percorso di vita che è scandito
come si sarebbe svolto anche altrove, senza cioè l’eccezionalità che chissà
perché ci si dovrebbe aspettare da un autore che ha vinto il Premio Nobel e per
una bizzarra conseguenza dovrebbe criticare con virulenza il suo paese, al
quale invece appartiene, e che è caratterizzato in questo libro da
quotidianità, passioni, scelte, fortune e sfortune come succederebbe il un
altro paese, cioè in un paese non comunista. Riteniamo questo taglio sugli eventi
più interessante di quanto non sarebbe un discorso ideologico a tutti i costi,
e illustrativo della società rappresentata in modo forse più incisivo.
Si direbbe anche di poter individuare una nostalgia del
passato, la stessa che abbiamo riscontrato in alcuni film di Zhang Yimou, di quando
i valori erano sentiti con forza e la vita era più semplice, ovvero una
nostalgia della società rurale e arcaica seppure non della Cina tradizionale e
oppressiva delle classi subalterne.
L’umano prevale sul politico; e il politico emerge
proprio per questa ragione.
Ma restano gli aneddoti della scuola, l’amore non
ricambiato, le esperienze della vita militare, la vocazione alla scrittura, il
successo, raccontati tutti con studiata semplicità e umana partecipazione.
[Roberto Bertoni]