[Nostalgic survival of otherness in the carpet of a migrant's dwelling, and temporariness of appliances. Foto Rb]
Adbelmalek Sayad, L’IMMIGRATION OU LES PARADOXES DE L’ALTÉRITÉ. Vol. 1: L’ILLUSION DU PROVISOIR, Parigi, Raisons d’agir, 2006
Raccolta di saggi
apparsi per la prima volta nel 1991, questo volume riflette sull’immigrazione
con andamento decostruttivo delle più comuni definizioni e del consueto
panorama antropo-sociologico, mettendo così in rilievo come, fin dall’assunzione
di concetti dati per scontati, la società destina all’emarginazione chi da
altri Paesi di è recato a lavorare in centri di sviluppo maggiore.
Non è certo banale
il punto di partenza di Sayad, ovvero la notazione che occorre “se souvenir que
l’immigré, avant de ‘naître’ à l’immigration, est d’abord un émigré” (p. 21).
Da un lato, questa riqualificazione del problema consente di cogliere la
situazione reale della persona coinvolta nello spostamento; dall’altro permette
di accostarsi ai pregiudizi della cosiddetta società ospite.
Parrebbe che determini
la condizione dell’immigrato l’oscillazione tra “l’état provisoir qui la
définit en droit et la situation durable qui la caractérise de fait” (p. 31). Si
tratta cioè dell’“illusion d’une présence nécessairement provisoire [...] lors
même que cette présence (ou cette absence), provisoire en droit, s’avère, dans
les faits et tojours aprés coup – et seulmant aprés coup, [...] comme un
présence durable, voir définitive” (p. 23).
Questa “illusione”
è giustificata, da parte della società che riceve, dall’alibi del lavoro che
dovrebbe costituire la motivazione unica delle partenze, per cui l’immigrato
risulta “une force de travail provisoire, temporaire, en transit” e “reste
tojours [...] révocable a tout moment” (p. 50).
Ciò serve da
mascheramento di una neutralità politica che non è invece tale e si qualifica
invece come funzione specifica del profitto economico in base al quale si
desidererebbe l’assenza di costi e la presenza di soli vantaggi: di qui
derivano i cliché di cui sopra e le motivazioni della regolamentazione dell’immigrazione,
che fanno sì che “l’immigré devant toujours rester un immigré, [...] la dimension
économique [...] est toujours l’élement qui determine tous les autres aspects
de son statut” (p. 63).
Sayad si domanda
se il minimo di diritti civili concessi all’immigrato non serva tanto al
rispetto delle persone quanto alla “bonne conscience de la société qui l’utilise”
(p. 57) e che ritiene di essere depositaria (come in effetti nel caso francese)
dei valori di uguaglianza, rispetto delle libertà individuali e così via.
Queste ideologie
insidiose caratterizzano la percezione stessa della propria situazione da parte
dell’immigrato: “l’immigré ne cesse d’être immigré que lorsqu’il n’est plus d’nommé
de la sorte et, un chose en entraînant un autre, lorsqu’il ne se dénomme plus
lui-même, ne ce perҫoit plus comme un immigré” (p. 139), superando i problemi
di tempo e spazio che costituivano l’investimento emotivo di una memoria
nostalgica, sacralizzatrice dei luoghi del passato, in breve di una difesa
idealizzata dell’identità originaria, che resterà a diversi livelli se l’immigrazione
si trasforma in condizione percepita come residenza permanente del paese nel
quale si è trasferito. Ricordando, al contempo, che “on ne quitte pas un pays
impunément, car le temps agit sur son partenaires” (p. 149).
Condizioni tutte,
che è effettivamente necessario riscontrare quando si parla di migrazioni per comprendere la complessita del problema e guardare da entrambe le direzioni quella del migrante e quella degli indigeni.
[Roberto Bertoni]