19/07/10

Luciano Curreri, A CIASCUNO I SUOI MORTI. UN ALBUM DI RACCONTI

Nerosubianco, Cuneo, 2010


Vorrei dedicare una breve nota a un “album di racconti” apparso nella neonata collana “Le golette” di Nerosubianco, che, secondo l’editoriale, sono “piccole nel nome, come le nostre proposte […] Ma via via, come le golette vere, potranno forse, un giorno, prendere il mare senza timore”. Approfitto dunque dello spazio virtuale di “Carte Allineate” per offrirlo in assaggio ai navigatori in rete.

L’autore Luciano Curreri, che sulla seconda “aletta” del volumetto si presenta in veste autocelebrativa come professore ordinario d’italiano all’Università di Liegi “all’età di 42 anni, cosa di cui è fiero”, nell’autocritica a corredo della prima “aletta” definisce il suo libretto “un suicidio, prima di essere un infanticidio, un parricidio e tant’altro” e augura al lettore una “cattiva lettura”. Un gesto abbastanza egoista si potrebbe pensare di primo acchito, confermato nella scelta dell’epigrafe di sapore libertario: “Voleva scrivere storie… ma soprattutto […] voleva essere libero” (Stephen King). Un omaggio anche alla “cattiva” letteratura di genere, che non ha paura delle espressioni “di plastica” e dei gesti forti.

Ecco come viene introdotto uno dei personaggi: “‘Sei Ciano bifronte, scherzava un mio amico d.j. impallinato di mitologia. Perché ero un kinder cioccolato di giorno, tutto latte e vitamine, sorrisi strabici da baby indifeso e un bel fiocco nero per i capelli raccolti in un’ordinata coda di cavallo”. L’effetto è insieme straniante e ammaliante, per l’omogeneità dello stile che ti trascina in un vortice di pastiches e ammicchi postmoderni da un lato, mentre dall’altro dei brandelli di memoria fanno trasparire invece un integro uomo di “lettere”, anche se non privo di autoironia: “Il ‘letterato’ è una forma vuota e sostituibile. La ‘merda’, quella resta. Mio padre diceva ‘letterato’ perché ero iscritto a Lettere con indirizzo letterario. Tutto lì”.

Nei suoi intenti deformanti, espressi in frasi-battuta che ruotano intorno al loro non-senso, si nascondono quindi frammenti di formazione che insieme compongono il quadro (autobiografico?) di una vita alimentata non solo dalle letture fatte a destra e manca, guidata anche da figure occasionali (il padre tipografo figurante in uno dei racconti potrebbe aver trasmesso l’amore per il mestiere al narratore), ma esemplari, che insegnano a intraprendere il percorso di “letterato” senza mai perdere d’occhio l’incongruenza con la vita, paradosso al centro del patto con il diavolo stabilito dallo scrittore esordiente.

I racconti più belli combinano una dimensione metaletteraria, che fa pensare a un Tabucchi per esempio, con una vena umoristica e insieme umana. In UN ORSO A FRAGOLE un professore di lettere insegna a un liceale quindicenne ad accettare l’assurdo per abbracciare la vita invece di odiarla: “Diciamo che essere un orso a fragole significa dare del tu alla vita; ovvero, se vuoi, provare a vivere tante situazioni senza esserci necessariamente portato, e anche senza essere preparato a viverle, magari grazie a un corso o a un apprendistato”. Il diavolo consultato dall’io narrante in MONODIAVOLO lo sfida a un dialogo che vuole emulare le battute pungenti da film hard-boiled ma che finisce in una serie B di “battute da tre soldi”, efficaci proprio grazie alla loro spudorata banalità. E così il narratore, per poter scrivere il suo romanzo, deve “far finta di morire”, ovvero praticare l’alto paradosso della “vera finzione” messa in atto per esempio da un sublime Palomar calviniano, senza perdere la sua sincerità, quella di essere una persona odiosa. O, per dirla con una battuta da un film che si lascia al “lettore comune” indovinare: “bisogna comportarsi da eroi per essere uomini appena passabili”. Il resto è una goletta con la voglia di diventare grande.


[Monica Jansen]