27/12/09

Annamaria Ferramosca, OTHER SIGNS, OTHER CIRCLES


[Traces of human presence in the snow. Foto di Marzia Poerio]


A selection of poems 1990-2009. Traduzione e introduzione di Anamarìa Crowe Serrano. New York, Chelsea editions, 2009


I primi segni e i primi cerchi della raccolta di Annamaria Ferramosca compaiono già nella prima poesia, dove “volano i cerchi delle gonne alla luna” nella sarabanda della festa delle tarantole, dove la parola cede il passo a una musica che genera battiti, colpi, tuoni. Forte è la presenza di un femminile ancestrale, che è legato alla terra e alla luce della luna. Un’atmosfera simile ritroviamo in PIAZZA JEMAA EL FNA dove assistiamo a una compenetrazione della voce poetica nelle multiformi “voci” che la piazza custodisce e un coinvolgimento fin sul piano del gusto (“questa voglia di datteri”) sempre puntualmente reso da chi traduce in una stesura fluida.

La presenza del passato nel presente ricorre anche in altri testi, come in ISTANBUL, dove si auspica che l’ombra dei minareti si allunghi sino a raggiungere dei bambini sciuscià e il loro disinvolto scilinguagnolo (“vuoiscarpecomestellemillelire”) per attirare i clienti e si traduce in un legame “stupefatto” fra la gloria dei secoli passati e l’apparente miseria del presente. Un inglese incisivo si dispiega sulla pagina opposta.

Sulla scia di segni di stupore il libro continua a dipanarsi anche attraverso gli adulti sconosciuti che popolano i tragitti in metropolitana: “Siete belli, reali ed inspiegabili / come genesi di mondi” (METROPOLITANA). Essi sono dei rinati davanti alle dita modellanti della parola, così il presente sviluppa una sua dimensione mitica.

La solitudine è spesso il destino della persona umana e del poeta che la rappresenta. In GIÀ CHE CORRE LA VITA:

“Importa
lasciarsi contagiare dai pensieri,
parole disvelanti
su pagine rubate a mille notti,
rivoli di un’epidemia
scesi a tracciare l’anima

Siamo in tanti a scendere
offrendo mantelli ininterrotti
di fuochi e solitudini
Gli orli
son ricamati di domande”.

Qui la parola è nascita, mentre in PARLARE COME NASCERE (vera dichiarazione di intenti, che fa parte della raccolta PORTE / DOORS, la cui traduzione è stata curata congiuntamente da Anamarìa Crowe Serrano e Riccardo Duranti) la parola è musica, mescolanza di termini italiani e inglesi, un porre domande che smarriscono la risposta, divagazione.

In RAGNO IN GOCCIA D’AMBRA, la parola si trova ad affrontare la durezza delle pietre “irremovibili”, l’eterno conflitto tra il silenzio e l’urlo, tra la morte e la ribellione: “Urlo nel tuo silenzio, taccio / nel tuo grido / ragno in goccia d’ambra” (“I screm into your silence, am silent / into your scream / spider in an amber drop”).

Avanzando in una modernità tecnologica che espropria sempre di più la persona umana, in ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI la Ferramosca dà voce al delirio di potenza della scienza moderna. Qui l’ibridazione in atto è concentrata nell’espressione “confondesalta”, dove la parola doppia fonde e intensifica il significato negativo dell’evento per smascherare ancora una volta un’operazione tesa a oscurare la nostra identità e a lasciarci senza quelle parole che ci hanno condotto ad un io integrato.

Un altro motivo presente nella poesia di Ferramosca è quello dell’attesa e della rinascita, il processo che restituisce l’infanzia primordiale come pure la parola dell’età matura. In SILENZIO, questo momento si esprime così:

“Silenzio
Rumore di minimi allungamenti
in questi fili d’erba che il mio corpo preme
dove terra e luce tramano alchimie

Silenzio
Attesa di fusione
O d’alto arcano, visto
che già siamo
ombra terraquea
Fino al prorompere dell’alba”.

Va sottolineato che la dimensione mitopoietica presente in questa poesia è vissuta da un poeta donna. Come ha ben suggerito la poetessa americana Alicia Ostriker, il ricorso al mito nella poesia delle donne è “un modo per ridefinire sia la donna che la cultura”. Nel mito, lo spazio in cui si muovono dèi ed eroi, vengono collocate le donne sessualmente cattive, come Elena, Medea o Eva e quelle virtuosamente passive come Maria o Cenerentola; quindi, attraverso questa stratificazione culturale, arriviamo a pensare che la donna debba essere o un mostro o un angelo. La Ostriker ci fa riflettere sul fatto che “ogni volta che un poeta impiega una figura o una storia precedentemente accettata e definita da una cultura, sta usando il mito”. Da quando hanno cominciato a scrivere, le donne sono divenute consapevoli del fatto che può capitare loro di parlare con la voce di Saffo o Ariadne, quando non possono dire “io”, ma possono anche sfidare i significati attribuiti alle figure e ai racconti mitici.

Tra le poesie di CURVE DI LIVELLO della Ferramosca troviamo una Eva a disagio nella sua veste di Dea: “Mi vedo deforme / in questa veste deiforme, perfetta”. Nella scelta della traduttrice, il precedente gioco tra “deforme” e “deiforme” si trasforma in “deformed” e “uniform”: “I feel deformed / in this godly uniform, perfect”.

Di fronte ai sogni malauguranti della notte Eva fugge dalla luce imperiosa del sole, rifugiandosi sotto l’ombra del melo. Rifiuta la sua dimensione di dea abbagliante per una scelta umana che la apre al dolore e alla finitezza del tempo.

Allo stesso modo Maria (MARIA DEL VENERDÌ SANTO) è vissuta con una partecipazione tutta materna, femminile e di basso profilo che riconduce a una storia delle donne sempre sottovalutata. “Ondeggia” “per campi minati desertificati” e tornerà “dietro i fiori di carta” invocata da prostitute, “poche madriterese” nella “polvere-terra” che rimane nei secoli in una confusione di “vesti croci foglie”.

Anche qui, riprendendo le parole della Ostriker, “la conoscenza femminile dell’esperienza femminile” cambia completamente le vecchie storie o le vive dall’interno, introducendo un simbolico femminile nella poesia e nella storia. La poetessa, cioè, rappresenta quello che lei come donna trova divino e demoniaco in se stessa, rimanda un’immagine “di quello che le donne hanno collettivamente e storicamente sofferto”.

Rimane, nelle interrogazioni costanti di cui è costellata la ricerca di questa poetessa, un senso di estraneamento che sosta nei frammenti di un presente di eliotiana memoria, ben visibili in una poesia come NEMMENO FOSSI AD ALCATRAZ. Qui la vita nella “Roma babelica” è un carcere che solo le parole possono lenire per sprigionare “l’angelo”. È un sentimento vivido e lucido anche in poesie più recenti come LO CHIAMANO ABITARE, dove la disarmonia si accende acuta e porta a dire: “non riconosco la tua casa che brucia / la tua voce che calma”.

In questi testi dell’ultima parte del libro, come NONOSTANTE IL SOLITO PAESAGGIO, la coscienza del “solito paesaggio” e delle “frecce di parole” capaci di “ferire di rinascita” è più sferzante, ma si rincuora nell’incontro con altre parole del passato che promettevano il miraggio di un conforto: “dicevi mai sarà tempo di lacerazioni / solo tepore d’onde in cui tuffarsi / seguendo l’espandersi dei cerchi”.

Questi cerchi rimbalzano protettivi anche in PAESEMONDO (“mia casa-paese che protegge / senza recinti”), dove la concavità di questa metafora presta un soccorso accogliente al poeta che ritorna al proprio paese natale. È un riandare indietro della memoria che per un po’ acquieta e cinge di segni, di cerchi protettivi “senza recinti”.


[Anna Maria Robustelli]