“Le idee che ci sono necessarie per conoscere il mondo sono quelle che nello stesso tempo ci camuffano il mondo e lo trasfigurano” (E. Morin).
“La verità è l’invenzione di un bugiardo” (H. von Foerster-B. Pörksen).
“Ragione e follia non si possono opporre in modo sostanziale e astratto. L’uomo è ‘sapiens-demens’. La verità umana comporta l’errore. L’ordine umano comporta il disordine” (E. Morin).
“Può essere razionale non essere del tutto razionali” (H. Blumenberg).
Il mondo in cui viviamo, il mondo postmoderno dominato dalla tecnica e da un’economia che si afferma sempre più su scala planetaria, è un mondo complesso. Un mondo però, le cui pretese illuministiche e razionalistiche, a lungo totem della scienza moderna, non riescono a sconfiggere definitivamente le grandi paure dell’uomo e a spiegarne le sue manifestazioni più elevate: le emozioni, la poesia, l’arte, tutto quanto provenga dalla cosiddetta sfera irrazionale e l’origine stessa della razionalità. La paura dell’incerto, la paura della morte e la paura dell’“altro” vengono tuttora esorcizzate, a dispetto di qualsivoglia razionalità “laica” e scientifica, attraverso il ricorso alle “antiche” pratiche religiose e superstiziose.
Il mutamento di paradigma [1] che dal “riduzionismo” (caratteristica della scienza classica) muove verso la “complessità” [2] ci offre una nuova visione del mondo e ci costringe a riconsiderare e “riformare” le coordinate stesse del nostro pensiero e della nostra razionalità.
Il vecchio paradigma della scienza classica, scandito dalle rassicuranti certezze del determinismo newtoniano e del cogito cartesiano è, infatti, sempre più incapace di affrontare l’“emergenza”, a tutti i livelli del reale, della complessità. La faccia con cui oggi si manifesta la realtà sembra essere, piuttosto che quella schematica e rassicurante della geometria euclidea, quella frastagliata e misteriosa di un frattale. Ma se la complessità è l’elemento costitutivo della realtà, nella sua doppia sfaccettatura di natura e cultura, la cassetta degli attrezzi della nostra logica - ancorata com’è, tuttora, al vecchio paradigma -, non è in grado di coglierla. Anche la logica - quella fondata sul principio aristotelico di identità e non contraddizione, che ha a lungo contrassegnato la razionalità occidentale - viene, infatti, messa sotto scacco dall’incursione del nuovo paradigma. La complessità dischiude le porte a nuove logiche che [3], in grado di soppiantare l’aut aut classico tra vero e falso, scoprono la contraddizione e il paradosso [4]. Se la logica classica risulta insufficiente essa è però anche indispensabile: insufficiente per “capire” la complessità, indispensabile per “esprimerla”. Quale che sia, infatti, il superamento del pensiero logico e articolato da essa auspicato, non può tuttavia prescinderne (dallo stesso pensiero logico) per esprimerlo e comunicarlo. Come sostiene in maniera illuminante Derrida - pensatore che più di ogni altro ha contribuito a portare il pensiero occidentale nella direzione di un ripensamento della metafisica (e quindi del logocentrismo dialettico appannaggio della logica classica) - “si tratta di porre espressamente e sistematicamente il problema dello statuto di un discorso che attinge da una eredità le risorse necessarie alla demolizione di quella stessa eredità” [5], assumendo “un rapporto critico col linguaggio delle scienze umane” [6].
Da qui l’esigenza di un metodo, inteso ancor più che come “programma” come “strategia” aperta ed evolutiva [7], che ci riveli la natura nella sua doppia veste di ordine e disordine, l’uomo nella sua doppia veste di sapiens e demens, la verità nella sua doppia veste di ragione e follia. Di una razionalità che riconosca come impossibile la definitiva emancipazione da forme mitiche di pensiero e accetti un “pensiero doppio” [8], dove mythos e logos siano due facce di una stessa medaglia, e si faccia garante di una laicità di pensiero che rinunci, una volta per tutte, alle pretese assolutistiche di uno scetticismo a tutti i costi, alimentandosi della tensione tra il dubbio e la fede.
Da qui le “sfide” che la complessità - attraverso il suo illuminante teorico e divulgatore, Edgar Morin - [9], ci prospetta, per mutare il nostro pensiero “semplice” in un “pensiero complesso” che sia in grado di conoscere la propria conoscenza, per convertire la nostra testa “ben piena” in una “testa ben fatta”.
Ma anche un’esigenza concreta, quella di rinegoziare il nostro umanesimo, che passi, paradossalmente, attraverso un “antiumanismo”, attraverso la consapevolezza cioè, che l’uomo non è affatto il fine ultimo del creato, il suo centro.
Ritorna qui, gravido di conseguenze, un problema tanto caro agli scrittori degli inizi del secolo scorso, quello dello “spaesamento” e della “perdita del centro”, che ha come pendant l’ingresso in letteratura di una fitta serie di personaggi inetti, “antieroi” [10] che si oppongono agli “eroi” ottocenteschi. Problema niente affatto sfuggito alla sensibilità ironica e paradossale di Luigi Pirandello che - nella premessa ad uno dei suoi più noti romanzi, Il fù Mattia Pascal - [11], ne attribuisce la colpa a Copernico, lo scienziato che per primo aveva spodestato la terra dal centro dell’universo. Ma è un problema che adesso necessita, senz’altro, di nuove e ben più convincenti risposte. E’ curioso infatti, come oggi siano proprio gli eredi di Copernico, Galileo e Newton, a riproporre l’“argomento di Bellarmino” per rifiutare la “scienza nuova” in nome di quella “scienza classica”, alle cui pretese di verità, ancora affermate all’insegna dell’empirismo e della razionalità analitica, sembra sfuggire gran parte della dimensione del reale.
La scienza della complessità è dunque una “scienza nuova”, una “gaia scienza” [12], una scienza che riscopre il “concreto”, laddove il paradigma classico privilegiava l’“astratto”, e che reintroduce il soggetto - troppo a lungo rimastone fuori - nella dimensione conoscitiva. Una scienza, infine, che riscopre l’arte.
Ma affinché possa avvenire, il mutamento di paradigma esige anche un mutamento di “statuto ontologico”. L’ontologia della complessità è infatti un’ontologia “debole” che lascia spazio al “divenire” e all’“evento” sbaragliando le pretese “metafisiche” del pensiero classico e riduzionista [13].
All’eccessiva coerenza metodologica della scienza classica - probabile responsabile dell’inaridimento di molti campi di ricerca appartenenti alle scienze umane - [14], il “pensiero complesso” oppone un metodo -strategia flessibile e “liberale”, che abbia come corollario una critica serrata all’eccessivo specialismo in cui sono organizzate le discipline e che si faccia portavoce di una rinnovata apertura al dialogo “inter-poli-transdisciplinare” [15].
Anche la critica letteraria può avvalersi di questo rinnovato impulso al dialogo interdisciplinare. La complessità lancia infatti la sua sfida, persino alla letteratura che, “vista da lontano” come suggerisce Franco Moretti [16], può arricchirsi del punto di vista delle altre scienze umane, alimentando a sua volta queste ultime, all’interno di un virtuoso processo osmotico di scambio.
La riforma del pensiero presuppone, infine, una riforma dell’insegnamento che, secondo l’auspicio moriniano, deve smettere di essere una funzione e una professione per diventare una “missione”. Una “missione di trasmissione” che oltre una tecnica richieda un’arte e quell’eros -indicato già da Platone come condizione indispensabile di ogni insegnamento -, che inteso come desiderio, piacere e amore, sia in grado “di tenere a bada il piacere legato al potere, a vantaggio del piacere legato al dono” [17].
NOTE
[1] Per il concetto di paradigma cfr. T. S. Kuhn, LA STRUTTURA DELLE RIVOLUZIONI SCIENTIFICHE (1962 e1970), Torino, Einaudi,1995.
[2] Per una panoramica del mutamento di pensiero che dal riduzionismo porta alla complessità cfr. G. Giordano, DA EINSTEIN A MORIN. FILOSOFIA E SCIENZA TRA DUE PARADIGMI, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2006; vedi anche LA SFIDA DELLA COMPLESSITÀ (1985), a cura di G. Bocchi e M. Ceruti, Milano, Feltrinelli,1994; per una sintesi di tipo divulgativo dal taglio polidisciplinare cfr. M.M. Waldrop, COMPLESSITÀ. UOMINI E IDEE AL CONFINE TRA ORDINE E CAOS (1992), Milano, Instar Libri, 2002.
[3] Per un quadro delle nuove logiche dischiuse dal mutamento di paradigma cfr. G. Gembillo, LA COMPLESSITÀ E LE SUE LOGICHE, in “Complessità”, I.1, 2006, pp. 71-94. La rivista, attiva all’interno del Centro Studi di Filosofia della Complessità “Edgar Morin” dell’Università di Messina, è il frutto dell’interessante attività scientifica condotta da Giuseppe Gembillo e Giuseppe Giordano.
[4] Per l’importanza del paradosso nella filosofia post-moderna cfr. G. Deleuze, LOGICA DEL SENSO (1969), Milano, Feltrinelli, 2005; per una panoramica della nuova sensibilità postmoderna, sebbene da un punto di vista critico-letterario (quanto mai utile - riteniamo - data la nostra vocazione comparatistica) cfr. POSTMODERNO E LETTERATURA. PERCORSI E VISIONI DELLA CRITICA IN AMERICA, a cura di P. Carravetta e P. Spedicato, Milano, Bompiani 1984; vedi anche R. Ceserani, RACCONTARE IL POSTMODERNO, Torino, Bollati Boringhieri, 1997. Quello di Ceserani - per via della “refrattarietà” della critica, soprattutto accademica, nei riguardi del fenomeno - è il primo tentativo di “definire” (raccontandolo) il postmoderno dall’Italia.
[5] J. Derrida, LA STRUTTURA , IL SEGNO E IL GIOCO NEL DISCORSO DELLE SCIENZE UMANE, in LA SCRITTURA E LA DIFFERENZA (1967), Torino, Einaudi, 2002, p. 364.
[6] Ibidem.
[7] Cfr. E. Morin-E.R. Ciurana-R.D. Motta, EDUCARE PER L’ERA PLANETARIA. IL PENSIERO COMPLESSO COME METODO DI APPRENDIMENTO, Roma, Armando, 2004, pp. 37-39.
[8] Cfr. IL DOPPIO PENSIERO (MYTHOS-LOGOS), in E. Morin, IL METODO 3. LA CONOSCENZA DELLA CONOSCENZA (1986), Milano, Raffaello Cortina, 2007, pp. 169-95.
[9] Di Edgar Morin oltre alla sua “monumentale” opera di elaborazione del “Metodo” (manifestamente antitetica all’impostazione cartesiana, a partire dalla sua dimensione), giunta ormai al suo settimo volume, segnaliamo anche: INTRODUZIONE AL PENSIERO COMPLESSO (1990), Milano, Sperling & Kupfer, 1993; LA TESTA BEN FATTA. RIFORMA DELL’INSEGNAMENTO E RIFORMA DEL PENSIERO (1999), Milano, Raffaello Cortina, 2000, sintesi illuminante delle nuove coordinate del “pensiero complesso” indirizzate verso una riforma (quanto mai utile ed auspicabile) dei programmi d’insegnamento, tenendo conto della “tensione” generata dalla doppia prospettiva “locale-globale”; I MIEI DEMONI (1994), Roma, Meltemi, 1999, straordinario esperimento “ibrido” a metà tra autobiografia e saggio divulgativo.
[10] Per il passaggio dalla figura “moderna” di antieroe a quella “postmoderna” di “posteroe” cfr. POSTMODERNO E LETTERATURA, cit., p. 18.
[11] L. Pirandello, IL FU MATTIA PASCAL, a cura di G. Croci e C. Simioni, in TUTTI I ROMANZI, a cura di G. Macchia e M. Costanzo, Milano, Mondatori, 1984.
[12] Cfr. F. Nietzsche, LA GAIA SCIENZA E IDILLI DI MESSINA, Milano, Adelphi, 2005. Per i rapporti tra arte e scienza nella filosofia di Nietzsche cfr. G. Vattimo, INTRODUZIONE A NIETZSCHE (1985), Roma-Bari, Laterza, 2005. Nella GAIA SCIENZA Nietzsche prosegue in quella direzione di una “nuova configurazione dei rapporti tra arte, scienza, civiltà, e rinuncia all’ideale della rinascita della cultura tragica” (ibidem, p. 39), già inaugurata con UMANO, TROPPO UMANO e AURORA. Ci piace inoltre pensare che Nietzsche - sulla scorta di uno dei suoi frammenti: “perché ogni cosa è talmente legata con tutto che voler escludere una qualsiasi cosa vuol dire escludere tutto” (FRAMMENTI POSTUMI,14.31, primavera 1888) - possa essere un antesignano del cosiddetto pensiero “sistemico-ecologico”, straordinario alleato del “pensiero complesso” (con cui condivide le istanze di fondo) nella sua “sfida” alla razionalità classica. Per una sintesi divulgativa delle istanze del “pensiero ecologico” cfr. il fondamentale lavoro di F. Capra, LA RETE DELLA VITA (1996), Milano, Rizzoli, 2001.
[13] Per un primo approccio all’antifondazionalismo ontologico postmodernista cfr. G. Vattimo e P. A. Rovatti, IL PENSIERO DEBOLE, Milano, Feltrinelli, 1983. Per una interpretazione in chiave ermeneutica di queste istanze - che muove da una rimeditazione della filosofia nietzschiana e da un “heideggerismo di sinistra” - fondamentale, per chiarezza e lucidità di impostazione, G. Vattimo, OLTRE L’INTERPRETAZIONE, Roma-Bari, Laterza, 1994. Riteniamo che, pur muovendo da percorsi differenti, ci siano delle significative analogie (entrambi ci sembrano andare nella direzione di un oltrepassamento della metafisica) tra l’ermeneutica di Vattimo e il “pensiero complesso” di Morin, a tal punto da considerare quanto mai proficuo, nella delicata stagione che attraversiamo (anche per via dell’impegno etico largamente presente nella riflessione dei due pensatori), un dialogo tra due dei maggiori filosofi viventi.
[14] Cfr. M. Perniola, CHI HA PAURA DEGLI STUDI CULTURALI?, “Agalma”, 1, giugno 2000.
[15] Cfr. E. Morin, LA TESTA BEN FATTA, cit., pp. 111-24.
[16] Cfr. F. Moretti, LA LETTERATURA VISTA DA LONTANO, Torino, Einaudi, 2005. L’indagine di Moretti - il cui auspicio di un’analisi della letteratura nel contesto più ampio delle scienze umane sembra andare in direzione della complessità - resta pur sempre uno studio delle forme letterarie da un punto di vista prevalentemente sociologico. A favore di una “riabilitazione” della letteratura nell’ambito delle scienze umane, in un’ottica pienamente riconducibile alle istanze promosse dall’epistemologia della complessità, si schiera E.R. Ciurana (cfr. SU FILOSOFIA, LETTERATURA E TRANSDISCIPLINARIETÀ, “Complessità”, I.1, 2006, pp. 28-36).
[17] E. Morin, LA TESTA BEN FATTA, cit., p. 106.