06/03/08

Piera Mattei, LA CITTÀ, GLI UCCELLI


[Indian Birds. Foto di Mary Keating]


LA CITTÀ, GLI UCCELLI (CRONACA DIVAGANTE) [1]

Vedo dalle finestre del mio appartamento la cupola più bella di Roma, o almeno quella che per molti è la più armoniosa, "il confetto" barocco di San Giovanni de' Fiorentini. La mia finestra incornicia di taglio anche la facciata, con le statue dei Santi in equilibrio contro il cielo. Sembra che da un momento all'altro potrebbero aprire le vesti come le vele di un aliante e prendere il volo. Il Settecento amava creare queste illusioni di leggerezza per il peso naturale dei giorni. I Santi, pronti a partire verso quell'azzurro che fa da sfondo, sono di pietra bianca molto ben conservata se si pensa all'usura del tempo. Restano saldi, i piedi poggiati su ciuffi d'erbe dalle spighe fiorite, attecchite anche sopra la mitra di un santo cardinale che sembra così piuttosto un selvaggio dal copricapo piumato. Varie specie di uccelli hanno gettato i semi di quei fiori negli interstizi delle pietre e dei marmi: rondoni, passeri, gabbiani, merli ma soprattutto alcuni stanziali protettissimi piccioni.

Ecco cosa succede di nuovo. L'estate incipiente ha condotto i poeti fin quasi al bordo della mia finestra. L'amministrazione cittadina, in prossimità del solstizio d'estate, ha organizzato un festival di poesia nella piazzetta antistante la chiesa. Da qualche giorno ho notato la novità: una guida rossa scende dal sagrato, ma laterale rispetto all'ingresso della cattedrale, credo per alludere al valore non solo letteralmente profano dell'iniziativa, e insieme per schermare il rumore degli autobus che passano rasente il lato opposto dell'edificio sacro.

I poeti convocati sono tanti, quasi nessun editore é stato trascurato.

Un'iniziativa equilibrata, lodevole, rispetto alla quale d'istinto, resto prudentemente laterale, come quella guida rossa.

I cassonetti della nettezza urbana, da un paio d'anni stanziano, a coppie sul Longotevere, proprio di spalle alla chiesa. Ogni volta che passo di lì nella mia immaginazione fervida la vedo - la chiesa imprigionata ormai nel cemento - sporgersi dalla sua penisola sul fiume, nella posizione di una barca agli ormeggi, bellissima e spericolata quale era prima dell'affronto dei grigi e precipiti margini. Un'esposizione temporanea a Palazzo Colonna ha messo in mostra i quadri del Vanvitelli che riproducono proprio questo scorcio del fiume. Così so esattamente com'era qui, allora. Chiatte disposte per l'attraversamento, e ruderi come scogli naturali su cui sostare completamente nudi. Figurine rosa, corpi appena schizzati, godono il fiume, i giochi sulle rive. Popolani e pescatori, o anche abitanti dei palazzi che da Strada Giulia degradavano al fiume?

Ora la chiesa, se scendi nel vortice urbano, fa quasi pena con due correnti di traffico che letteralmente l'accerchiano, e il fiume... allontanato per sempre. Allontanato è anche il sentimento della sua esistenza, così prossima invece, lui ridotto a un canale senza più fascino, se non quando la piena torna ad avvicinarlo, a renderlo visibile. Certo non in questa stagione.

Chi pensa più al fiume passando sul Lungotevere? Solo i gabbiani ne sono testimonianza viva. Hanno un grido crudele che proclama la vicinanza del mare e la loro dimestichezza solo recente con la città. Questi uccelli preferiscono agli uomini i loro simulacri marmorei. Restano ritti, sui colossi nudi e allacciati in nodi lacoontici del ponte Vittorio, fermi nel bianco sfumato di grigio, a variare, con volontà straniante, la forma del gruppo. Creano voragini di paura le loro incursioni verso la croce della facciata dei Fiorentini, dove si avventano per spaventare i piccioni, tutti rattrappiti sui cornicioni.

I piccioni, loro, fin troppo prossimi agli uomini, alle loro colazioni al bar, ai tubi di scappamento delle automobili. Domesticissimi, e quando non si rincorrono facendo la ruota, crapulescamente "adunati alla pastura". Perché tutta la poesia dei colombi si smorza fino a estinguersi, se è vero quanto mi certifica il vocabolario, che colombo è lo stesso che piccione. Me lo ricordava per dileggio anche mia figlia, una volta che ero riuscita a sottrarre un piccolo caduto dal nido al gioco massacrante del mio amatissimo gatto. Lo vezzeggiavo con la tenerezza che si porta – e agli animali si può dimostrare – verso chi abbiamo salvato da una brutta fine. Lo chiamavo il mio colombino. E lei, che ne era un po' gelosa, rideva "Ma quale tuo colombino, quello diventerà un bel grasso piccione!". Difficile accettarlo, eppure il Garzanti non può mentire: "colombo lo stesso che piccione". E Dante allora si potrebbe parafrasare – a nessuno verrebbe in mente – "quali piccioni, dal disio chiamati"? e ancora "li piccioni adunati alla pastura"? Nell'un caso e nell'altro, l'uso del sinonimo abbassa scandalosamente le note altissime di quella poesia. Vorrei proprio capire, un giorno ci arriverò, dove consiste questa doppia identità del colombo-piccione. È piuttosto mite nelle due diverse nominazioni, ma una volta è poetico, l'altra antipoetico fino al ridicolo.

Questi animali, questi piccioni completamente inurbati che nessuno chiamerebbe colombi per non essere deriso, animali petulanti nella loro domesticità, sono in questa zona protetti da una persona insospettabile, che arriva silenziosa e discreta tutte le mattine, su una bici dove carica pacchi di semi. So che la signora è in polemica con l'amministrazione cittadina perché questa sta studiando piani di contenimento delle nascite, con sistemi che lei giudica crudeli verso quegli uccelli. A vederla mentre distribuisce nutrimento, non la diresti una persona battagliera, forse è solo molto convinta delle sue ragioni. Un sorriso discreto mostra che prova godimento per l'appetito dei pennuti. Come ogni donna del resto, ogni madre, ama nutrire. Ma non li vezzeggia, non li chiama. Scendono a nuvola nel vederla arrivare, tutto avviene nel più completo silenzio.

Un pomeriggio in cui al festival è prevista la presenza di un gruppo simpatico e ben coeso di poeti – alcuni potrei contarli tra i miei amici – repentinamente il cielo si è annuvolato. I gabbiani, quasi obbedendo a un segnale, si sono slanciati con gridi verso il fiume. In risposta il cielo ha fatto tremare l'aria con una serie wagneriana di tuoni ed è venuta giù l'acqua, come ai tropici. Ho provato una pena improvvisa per l'innocente guida rossa intrisa di pioggia. Così fortuitamente sciupato il suo fragile decoro.

I miei amici, anche loro, hanno perso purtroppo il loro organizzato turno di lettura. E io il piacere di ascoltarli, l'occasione di un incontro, perché mi ero veramente ripromessa di scendere, questa volta. Soprattutto, come succede di fronte a cataclismi naturali anche minimi, ho sentito la precarietà dei progetti, la forza di ciò che avviene al di fuori di qualsiasi controllo volontario.

I poeti spesso hanno voci discrete, ma gli altoparlanti convogliano con sonorità eccessiva, dentro le stanze del mio appartamento, anche i soffi più lirici. Dopo giorni di ascolto passivo, non dei poeti, ma di voci che giungevano distorte e irriconoscibili, l'ultima sera li ho raggiunti. La mancanza di un vero tragitto da casa mia al luogo dell'evento – si può dire che se cadessi dalla finestra andrei a finire proprio di fianco al sagrato – mi dà la sensazione di restare nel cortile di casa, mi fa sentire indiscrete le persone che normalmente frequento in luoghi più neutrali, perciò mi pare di non partecipare al rito con la necessaria formalità. Non riesco a correggere sul viso un'espressione vagamente dispettosa e indispettita.

Siedo in prima fila perché sono arrivata in ritardo e solo nelle prime file alcune sedie sono rimaste vuote. Programma per palati fini: la lettura delle poesie di Antonia Pozzi. Legge un'attrice carina, che mentre recita sembra che mi sorrida, ma forse sorride alle parole, ai fogli appoggiati sul leggio. Lascia che i versi cadano col loro giusto peso muovendo appena le labbra dipinte in rosso lacca – un trucco da anni cinquanta che oggi sembra solo da passerella o da palcoscenico. La sua figura un po' mi distrae dalla poesia. Mi torna in mente l'odore dolciastro, di cacao e colorante cosmetico, che era sulle labbra sempre tinte in rosso della mia maestra alle elementari, una ragazza graziosa e magra. Anche questa ragazza è molto sottile ma in modo diverso. Rifletto sulla forma senza spessore che hanno i corpi delle ragazze oggi, come non avessero grasso ma neppure ossa, perché nell'inconsistenza di quel corpo davanti a me sulla pedana, non c'è magrezza evidente.

Penso alla mia maestra, che doveva essere poco più che una ragazzina, a quel rossetto dall'odore di frutto troppo maturo che stendeva sulle labbra forse per sentirsi più adulta.

All'esplodere degli applausi, mentre la gente si alza per scambiarsi i saluti, controcorrente mi avvio verso il portone di casa.

Qualcuno mi sta chiamando, io non mi volto. Mentre mi fermo davanti al portone per cercare la chiave, qualcuno mi poggia una mano sulla spalla.

È proprio lei. Solo adesso mi ricordo. Certo, l'avevo sentita leggere già altre volte, o forse avevamo realizzato, anni fa, qualche progetto insieme. Nella penombra il rossetto non lo noto più, intravedo nel sorriso i denti bianchissimi, un po' sporgenti.

"Ciao, ti ricordi?"

Non precisamente, non ho mai avuto per le facce e i nomi quella memoria forte e ben organizzata che è di grande utilità in casi del genere. Quindi sorrido.

"Mi scusi... "

Sto fuggendo, uso il lei come uno scudo. Ho in mano la chiave del portone. L'attrice continua a parlarmi, a bassa voce. Credo mi stia chiedendo perché mai non sono stata invitata là, tra tutti gli altri.


***

EPILOGO

a Marinella S.

Se ciò che scrivi e immagini è vero sulla pagina un bel giorno ti capiterà d'incontrarlo. La signora che nutre i piccioni, semplice comparsa del breve racconto sulla popolazione dell'aria che ama volteggiare nel cielo sopra la mia cupola, lei in persona mi ha telefonato.

Ci sono stati è vero passaggi intermedi, qualcuno certo, ha fatto da tramite. Ma il risultato magico è quella telefonata, con la quale lei mi dice di riconoscersi del mio racconto.

No, non dirò quanto di intima, di sottile sofferenza respira nella sua voce. Dirò delle cose che – vuole parlarmene – le danno gioia.

Anzitutto ci tiene a sottolineare quanto di ciò che ho scritto è fuori del suo personaggio. Lei non è assolutamente in polemica con l'amministrazione cittadina. Al contrario, l'assessora che si occupa degli animali che vivono allo stato libero nel territorio della città, condivide molti suoi punti di vista. Del resto lei è stata la sua insegnante di filosofia, come dire hanno discusso già al liceo di etica, della sofferenza. E di come evitarne dovunque nel mondo l'epifania possa diventare un impegno costante.

Mi accenna a una vecchia signora che va a trovare tutti i giorni. La sua solitudine è un male che va evitato. Ma quando torna a parlare degli uccelli s'infervora. Ha scoperto, e mentre l'ascolto è una rivelazione anche per me, che questi volatili urbani nel periodo della cova trovano fili di plastica e capelli, li scelgono come materiali facilmente intrecciabili per costruire i nidi, ma poi vi rimangono impigliati, le zampine legate. E più vorrebbero liberarsi più rimangono impaniati, più tirano più arrivano a prodursi ferite nella viva carne, fino ad autoamputarsi, fino a che l'arto finisce in cancrena. Ha imparato, mi dice, come sollevarli per le ali, e tagliare con una forbicina piccolissima quei fili che diventano affilati come coltelli, saldi come catene.

Ci ritroviamo, la gentile signora ed io, di tanto in tanto in un ben fornito negozio per animali. I proprietari sono molto disponibili e mi permettono di lasciare lì, libri e riviste che ci stiamo scambiando perché, lei mi dice:

"Non so mai in quale parte della città potresti trovarmi, faccio ogni giorno un giro diverso e se riesco a liberarne uno da quei lacci ah, allora sì mi sento invadere dalla gioia!"

Sono ammirata di lei perché con tanta tenacia lotta non contro eventuali nemici dei suoi volatili, nemici esterni che pure esistono, ma contro i lacci che gli uccelli stessi, con gioia, pensando di avere trovato quello che faceva per loro, si sono stretti intorno alle esili e rossastre caviglie, il punto debole e più esposto del loro corpo. Va a cercarli impugnando il sottile strumento atto a liberarli, parabola silenziosa di un insegnamento valido universalmente.

Intanto mi chiedo se ora che veramente l'ho conosciuta è giusto che io continui a scrivere di lei. O dovrei allontanarmi da questa tentazione?


[1] Tratto da Piera Mattei, MELANCONIA ANIMALE, Lecce, Manni 2008