03/08/07

PER MICHELANGELO ANTONIONI


[Red and yellow square pattern. Foto di Marzia Poerio]


In un’intervista a Michelangelo Antonioni, rilasciata nel 1970, Pietro Pintus scriveva: “[…] penso […] alla Daria di ZABRISKIE [POINT], a come il suo viso potrà emergere all’improvviso in un pomeriggio d’aprile del 2000 (fra trent’anni, non è poi così lontano)” [1].

Abbiamo visto quel viso (quello dell’attrice Daria Halprin) in TV la sera in cui è mancato Antonioni, il 31 luglio. ZABRISKIE POINT risulta oggi un film datato? Sì se ci si riferisce alla sua qualità di testo centrato sul tormento ribellistico e personale, prima ancora che politico, del protagonista, Mark (impersonato dall’attore Mark Frechette). Gli eventi collettivi sembrano solo uno dei moventi delle difficoltà e del desiderio di rivolta di Mark. Il quadro storico è reso con un’interpretazione in parte attinente ad avvenimenti socio-politici di matrice marxista (agganciati alle ideologie movimentiste delle università americane della fine degli anni ’60); in parte con un’allusione al progetto di liberazione esistenziale messa in atto dalla gioventù di quel periodo, più di altre immagini simbolizzata dal volo dell’aereo.

Ma è proprio quando ci volgiamo alle immagini che la datazione di questo racconto cinematografico diventa più incerta. Il volo di Mark col gioco di inseguimento dell’auto di Daria ricorda, per riferimento intertestuale, scene indimenticabili di Hitchkock e si proietta verso un futuro di rappresentazioni postmoderne. Il deserto stesso, con la scelta espressiva del colore e la sua bellezza priva di oggetti e aperta di spazio è stato ripreso più volte: quanto è collegato PARIS TEXAS di Wenders a quella rappresentazione del ’70?

Nell’individuare i comportamenti difficili e critici della tarda modernità, Antonioni resiste, a noi pare, anche come narratore di intrecci scheletrici e ispidi ai quali si attaglia senz’altro, come spesso si è sentito dire e si è letto, la definizione di storie dell’incomunicabilità, esplorata negli anni Cinquanta, dopo il breve periodo neorealista, in capolavori quali L’AVVENTURA (1960), LA NOTTE (1961), L’ECLISSE (1962) e DESERTO ROSSO (1964). Pellicole in cui poche e tanto più significative sono le parole; nonché irrazionali e imprevisti gli atti di taluni personaggi; non evolutivi e interrotti nella continuità della vita i finali irrisolti; inquieti i personaggi femminili e più coscienti (come dimenticare le interpretazioni di Monica Vitti?); motivati da interessi economici e da calcolo alcuni personaggi maschili. Fragilità, incapacità di vivere secondo i dettami delle ideologie dominanti (come dichiarò il regista, “il dramma appartiene a chi non riesce ad adattarsi”) [2]; eppure inseriti, chi intenzionalmente, chi suo malgrado e con contraddizioni, nella dinamica del neocapitalismo italiano, raffigurato dalle città di recente urbanizzazione, dalla Borsa, da interni borghesi.

Abbiamo seguito la parabola di Antonioni anche tramite altri suoi lavori. I film che più ci sono piaciuti, e che ci sembra abbiano un’impronta di inquieta classicità, come nelle caratteristiche del canone di Harold Bloom, ovvero l’essere innovativi e innestarsi al contempo sulla tradizione, oltre che tratti quali il partire da opere letterarie e riportarne le strategie narrative col cinema, sono due: BLOW UP, basato sul racconto LA BAVA DEL DIAVOLO di Julius Cortázar, per il suo enigma e la costruzione indagante del racconto; e IL MISTERO DI OBERWALD, il cui soggetto è tratto dalla pièce teatrale L’AQUILA A DUE TESTE di Jean Cocteau, per il colore emotivo, il dialogo straniante, il montaggio originale.


[1] LA CINEPRESA E LA REALTÀ: INCONTRO CON MICHELANGELO ANTONIONI, a cura di P. Pintus (1970), pp. 227-33 di MICHELANGELO ANTONIONI, a cura di G. Martini (Assessorato alla Cultura, Regione Emilia-Romagna), Bologna, Falsopiano, 2005, p. 228.
[2] INTERVISTA CON MICHELANGELO ANTONIONI, a cura di J.L. Godard (1964), pp. 227-33 di MICHELANGELO ANTONIONI, cit., p. 170.


[Renato Persòli]