26/08/07

Piera Mattei, L'ESISTENZA HA UN RITMO TRIÀDICO. SPUNTI INTERPRETATIVI DELLA POESIA DI DANTE MAFFIA


[So the world... Does it exist to your empty eyes? (Statue from the walls of Rome). Foto di Marzia Poerio]


Dante Maffìa, AL MACERO DELL'INVISIBILE, Firenze, Passigli, 2006


Questo libro complesso e molteplice è sembrato a un certo punto decantarsi, nella mia riflessione, in nitida forma triàdica. C'è un "basso", lo sprofondo (danteschi “bolge”, “imbuto” e “natural burella”); c'è un "alto", con sole bieco e aggressivi grattaceli, infine c'è il "qui", il luogo dove sembra scorrere la vita normale quotidiana.

Anche il tempo si squaderna in passato (ricordi di un'infanzia dura e di una Calabria amata come si ama un mito), un presente di gesti e sguardi, impegni, le figlie, gli amici, gli animali domestici, e un futuro che addensa in sé tutto il "rancore" del passato e profetizza vendetta e rovina.

Ma lo schema triadico si rivela poi solo uno dei possibili spunti interpretativi. Noto che né il titolo del volume, né quello delle varie sezioni contengono indicazioni tali da non farmi tornare più volte sui miei passi.

Diversi gli autoritratti, sfaccettature di personaggio in continuo movimento o mutazione:

“Adesso posso però riposarmi
dai dinieghi della vita. Ho trovato
nuove città, nuove mete
a meno che la finzione non diventi libidine
e straripi nel mito di me”.

Ascoltiamo una voce sincera fino alla rivelazione (perché altrimenti parlerebbe?) che si esprime per conto del poeta Dante Maffìa, ma, come abbiamo osservato, non ne fissa un ritratto univoco. Quando pensi di averlo afferrato e compreso, con il guizzo di Pròteo, si compone in altra forma.
Dante Maffìa è un autore che ha espresso se stesso in già decine di opere, a cui non sono mancate i più importanti riconoscimenti. Tuttavia chi si pone in ascolto di questo libro dopo aver allontanato ogni giudizio precostituito, come se non conoscesse la varia e densa bibliografia dell'autore, si trova di fronte a un'opera che ha i caratteri dell'unicum. L'autore scava dentro di sé "come fosse" la prima volta, profetizza, urla il suo sdegno, sorride e ricorda, "come fosse" questa la chance assoluta, la scommessa dell'uomo e del poeta. Ogni libro sarà allora sentito un po' come un figlio, una figlia, per il quale non esiste che una disposizione assoluta, e s'ucciderebbe chi “invitasse al gioco della torre”?

Conforme all'individuato schema triadico, tre sono anche i luoghi di questa poesia: una Roseto calabra che ormai vive solo in un ricordo tenero e aspro, una città del Nord fredda allucinata e ostile al punto di assurgere a simbolo negativo, infine un qui, una sorta di non-luogo dove non ci sono accadimenti speciali perché quanto accade è la vita quotidiana e familiare: “ [...] Le figlie / hanno fatto la doccia e le trenta telefonate / giornaliere. I televisori sono accesi”. Ed ecco l'autoritratto che si addice alla soddisfatta autoaccettazione (ma quanta autoironia!): “Un egoista come me / non rinuncia agli appetiti, / né agli aggettivi possessivi, ma non ama i vestiti”.

Tuttavia già lì, nel confortevole mondo quotidiano s'impara a essere freddi e soli, come “un muro di cristallo / se vorrò che almeno una parola diventi / eco sonora [...]”

La parola "cristallo", anche altrove nella forma dell'aggettivo "cristallino", ha in Maffìa una valenza dolorosa, una freddezza mortuaria: “[...] I pensieri sono acqua cristallo musica o parvenza
d'un antico dolore che perseguita le mie ossa”; e ancora: [...] tramutare la morte in baci / cristallini in infiniti mattini di preghiera”.

Nel bel mezzo del vivere, di chiacchiere e libagioni, se si compie il rito di “sedersi e attendere”, si spalancano gli abissi dell'altra realtà. Il "qui" si apre, si sprofonda, sparisce e si sfonda in alto e basso in sopra e sotto, mentre l' "adesso" si scompone in passato e futuro nei quali non c'è stato né ci sarà giustizia o scampo:

“Dunque non esiste il mondo. E ciò che vedo
è una profonda natural burella
di vermi che s'affollano alle soglie
del possibile. E poi la frana
con un frastuono di sillabe che invadono
l'apertura dei cieli e pretendono
di costruire il mondo”.

Il mostruoso aldilà è qui:

“Non può aiutarmi nessuno. Fingo
il paradiso tra le braccia dell'essere che amo
e poi cado dentro di me da un precipizio
molto alto ed è strano
che mi trovi poi senza ossa rotte”.

Per quanto reali e vissuti sono l'inferno, l'imbuto, le bolge e Satana, il paradiso invece si può solo fingerlo, fare "come se" esistesse e ne fossimo degni. Questo è il misfatto delle similitudini: l'evento non accade, la storia non muta, periscono le illusioni.

L'inferno interiore e la profezia di una "civiltà" che sarà divorata dalla vendetta si accampano con forza rispettivamente nella prima e nell'ultima parte del libro. Nella città che non è stata perdonata neppure il sole trova un varco per farsi umano :

“E' stato un approdo mortuario:
la pioggia è un cane randagio
col pelo irto, il Duomo
un artiglio insanguinato”.

Il tono di Dante Maffìa acquista qui la violenza del suo conterraneo Gioacchino da Fiore - che andava predicando imminente l'avvento apocalittico di una nuova era - ma si possono forse udire anche gli echi dell'espressionismo rivoluzionario di Georg Heym. Così Maffìa: “Il rancore pretende prede / e avanza senza discernere / tra chi ha colpe e chi è vissuto senza”. Se i poveri e quelli di culture diverse, forti anzitutto della loro potenza riproduttiva, si avventeranno con ferocia, niente resisterà:

“e si siederanno davanti alla Scala
sempre più convinti
che a chi non sa ascoltare l'uomo
va negata la musica”.

C'è in questo libro tutto il mondo del poeta: cieli azzurrissimi, richiami di venditori, rapide immagini dei genitori, inferni dell'anima, ma anche molta tenerezza. Ci sono gli animali domestici, il gatto Emilio e una gatta maestra di libertà (o di libertinaggio?), la formica, il corvo, lo squalo. Ci sono le figlie alle quali il libro è dedicato, la loro grazia, la loro capacità di far sentire un uomo come un bambino che s'addormenta con la ninna-nanna alla bambola, e insieme come il saggio, il Padre: “[...] Mi sentivo / eterno e maestoso, vivo / fino all'inverosimile”.

Soprattutto, riconoscibile nei vari registri della voce, c'è quel miracolo della poesia, che nessuno sa spiegare bene in cosa consista. Se ne trova qui una definizione inusitata, giocosa (questo anche è un tono non estraneo al libro): “La poesia è un uovo sodo / dimenticato in una radura”.