24/08/07

Marco Ercolani, BUCHI NEL VUOTO

APPUNTI DI ALBERTO GIACOMETTI (1959-60)


Ho fatto diversi sogni ma non li racconterò su queste pagine. I trascrittori di sogni sono i poveri aiutanti che ci soccorrono per decifrare visioni dell'altro mondo. Ma io non voglio decifrare niente. Non voglio parlare del mio altro io, quello che si addormenta quando sono sveglio. Non sono uno scrittore apocrifo ma uno scultore fallito.

Certe splendide ragazze, che vedo in strada, mi tolgono dalla mente la mano di Maria che si posa sulla guancia morta di Gesù, negli affreschi di Giotto. La vita scorre. Deve scorrere. E io rendo i miei segni più fitti mentre disegno le montagne e le case. Così, coperte dal carboncino, sono meno esposte alla luce. Più naturali.

Noi, fragili pittori. Facciamo gesticolare figure piccole e torturate, come in un'incisione di Callot. Ma se osassimo guardare quello che sentono! L'aria da cui sono circondate! Un vuoto immenso.

Piranesi? Carceri enormi, con argani e corde. L'uomo è una cosa immobile, un insetto. Che mancanza di pietà!

I matti sono quelli che si coprono il volto con le braccia perché è scorticato.

Che voglia di fare, in quindici giorni, la statua vera, risolutiva!

Ma poi, come spiegare al mio modello che invecchierà? Che la scultura che lo raffigura si sgretolerà dopo di lui? Per insegnargli questo, comincio a fare a pezzi la creta della faccia che gli assomiglia e non gli assomiglia abbastanza, lì, fra guancia e bocca, con un coltellino.

Cézanne è il pittore più profondo, ma anche gli uccelli di Braque, come sono reali! Piatti, appena disegnati. Neri sul bianco.

La possibilità di percepire figure armoniose. Forse a quindici anni, quando avrei voluto scolpire le illustrazioni della Bibbia.

Aggiungere qualcosa agli occhi? Sarebbe ridicolo. Più appropriato togliere. Già, si vedrebbero le orbite. È spaventoso, ma bisogna andare avanti.

Una radiografia? Tutti uguali sotto la lastra, diversi per una macchia più piccola o più grande. Sciocchezze. Bisogna saper vedere uomo per uomo.

Non potrò mai esser meno di quello che sono. E quello che sono è un pittore che non riesce a mettere a fuoco.

Dicono che avrei copiato da Dürer o da Rembrandt come se fossero dei Giacometti. Ma allora, quando Rembrandt dipinge Tiziano non trova Rembrandt? Senza la propria ossessione, che prevale su tutto, non si viene a capo di nulla.

Non mi tolgo la vita perché domani potrei realizzare quello che non ho fatto finora. Credo ai miracoli come credo alla polvere sparsa sui miei disegni. Ieri, ne ho bruciato diciotto che non valevano niente.

Tengo i miei appunti in una scatola di fiammiferi, se non ci metto le ultime statuine, prima di una mostra.

Si dice che un pittore, grazie alla pittura, possiede a distanza . Ma mi sembra un'ipotesi da stregone. Io perdo anche quello che guardo pochi centimetri davanti a me.

Uno scrittore dice che si ha una sola cosa da dire e che per il resto bisogna tagliar corto. Intorno a quella cosa, aggiunge, sarebbe opportuno far rotolare qualche masso, per proteggerla da sguardi estranei.

Ha ragione Genet, quando scrive che io non dipingo né per i miei contemporanei né per chi verrà dopo di me, perché faccio delle statue che incantano i morti e che rendono i vivi simili ai morti che saranno.

Più della grande pietra liscia e scura, insostenibile allo sguardo, che vidi da bambino su quella spiaggia, mi interessano le pietruzze scheggiate dei fossi, piene di crepe e di fessure, miei compagni e miei complici. Quasi che quella grande pietra nera abbia avuto il diritto di esistere solo nel momento armonioso e potente dell'infanzia felice.

Talvolta, quando mi sento più rabbioso, comincio a gridare contro le mie povere sculture, a colpirle con scalpello e coltello, mi chiedo se, in effetti, non siano loro a fare di me quello che sono, e non il contrario.

Tutto è così perfetto e risoluto, nelle statue che vedo, soprattutto in Brancusi. Solo io sono lo stupido, che scavo e smuovo. Mi ritrovo nell'ultimo Rodin. Forse in Medardo Rosso. Ma loro erano impressionisti, agitati dalla luce, amanti delle superfici. Un bambino mi ha detto, guardandomi la manica macchiata di caffè mentre fumavo e mangiavo un uovo al bar, se quella era cenere. «C'è stato mica un terremoto, signore?». E io mi sono messo a ridere.

I cieli luminosissimi, insostenibili, azzurri. Come evitarli?

Le mie piccole geografie sono i passi, le facce, le braccia. Lo devo, a questa specie macilenta che va a tastoni nel buio.

La statuina etrusca di Volterra che simboleggia la sera? Ecco dove nasce la sua arte, Giacometti, mi dicono fior di critici. E hanno ragione. Io prendo solo quello che c'è, quello che vedono i miei occhi. Se anche gli altri facessero lo stesso, ma come faccio io, senza copiare!

Mi sento così disarmato, circondato da pittori non indispensabili!

Io - aiutante magico di me stesso, servo di me.

Tutto ricomincia sempre. Da quando ho sentito cosa significa la morte, sento che tutto ricomincia. Anche perché ogni giorno che, finora, ho impiegato a scolpire, è stato un giorno sprecato. Come artista, vivo nella nebbia. Ma domani?

Non lavoro, come gli antichi, su corpi e paesaggi che sono la somma delle conoscenze e dei saperi di un'epoca armoniosa ed esatta, corpi e paesaggi che il pittore non vede ma si raffigura come esempi. Io, come al solito, mi arrangio con quello che vedo. E l'altro giorno, quelle tre ragazze che ridevano nel buio, con la luce del lampione che sfiorava le unghie dei piedi, in piena estate, mi ha mandato nel pànico. Mi sono chiesto che disegno poteva raffigurarle. Mi sono risposto: nessuno.

La mia statua più bella? Quella che mi guarderà veramente. Quella che mi guarderà per ultima. E allora io, libero dal mio compito impossibile, mi reinventerò un’altra ossessione, per prepararmi meglio alla morte.

Non ho fatto abbastanza. Finché sono vivo, non faccio abbastanza.

Una volta scrissi: smetterla di fare buchi nel vuoto. Oggi mi dico: come li disegno, i buchi nel vuoto?