20/08/07

LEARCO PIGNAGNOLI E DANIELE BENATI


[Is the world real if seen through a small ring? Foto di Marzia Poerio]


LE OPERE COMPLETE DI LEARCO PIGNAGNOLI, a cura di Daniele Benati, Reggio Emilia, Aliberti, 2006.


Il comitato per la pubblicazione delle Opere di Learco Pignagnoli ci avverte che questo autore “brilla di luce propria nel campo della nostra letteratura contemporanea, perchè la sua presenza corrisponde radiosamente ad una massima assenza”. Questo è un paradosso facilmente spiegabile: Learco Pignagnoli, mai apparso in pubblico, è scrittore “schivo e solitario, apolitico e anarchico, senza famiglia e senza falsi amici” [1]. Per anni, però, le sue opere sono circolate tra amici, discusse a convegni, e alcuni stralci sono stati publicati sulla rivista “Il semplice”: RACCONTI BREVISSIMI (settembre 1995) e RACCONTI COSÌ BREVI CHE PIÙ BREEVI NON SI PUÒ (febbraio 1997). La sua massima assenza è stata quindi una presenza quasi clandestina e si contrappone, come emerge dalla lettura della raccolta, alla presenza costante di tanti altri “pennaioli blasonati” che non esitano ad apparire in pubblico in ogni occasione.

L’ipotesi che l’assenza di Pignagnoli sia da attribuire al desiderio di fare “un passo indietro [...] in un mondo dove tutti appaiono o vogliono apparire” è tuttavia negata dallo stesso scrittore nella (probabilmente) unica intervista rilasciata. Pignagnoli ammette che la sola ragione è quella di voler fare il furbo, di essere cioè presente proprio attraverso la sua assenza: “voglio fare come quegli autori americani che non si fanno mai vedere in pubblico e non partecipano mai a nessun avvenimento così cresce l’interesse nei loro confronti” [2]. Peccato, verrebbe da pensare, visto che per sua ammissione, nella già citata intervista, Pignagnoli sarebbe un uomo molto bello!

La pubblicazione, nel 2006, delle OPERE COMPLETE DI LEARCO PIGNAGNOLI viene salutata da Batterzaghi con “sollievo” perché, dopo aver sentito parlare per anni di questo scrittore e della sua opera, finalmente lo si può anche leggere fuori dalla “clandestinità” [3]. All’uscita della raccolta, molti sono stati i dubbi circa la paternità che si è attribuita a varie riprese ad un collettivo apparentemente formato da Daniele Benati, Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia, Paolo Nori e Marco Raffaini - che ne avevano letto spesso in pubblico vari stralci -. Ma Pignagnoli, nato a Campogalliano e a San Giovanni in Persiceto altri non è che Daniele Benati, autore di SILENZIO IN EMILIA (1997) e CANI DELL’INFERNO (2004), che sulla copertina risulta esserne solo il curatore. Ormai si è detto molto su questo libro. Si sa che le opere complete di Learco Pignagnoli consistono in tutto di 245 prose di svariata lunghezza, di un romanzo autobiografico, GIACOMO, di 6 poesie e di un’opera teatrale. Le prose, che occupano la parte più significativa della raccolta, potrebbero essere definite romanzi “senz’aria”, così come Manganelli aveva descritto nel 1979 i cento racconti che costituiscono il suo CENTURIA: “Ho l’impressione che i raccontini di CENTURIA siano un po’ romanzi a cui è stata tolta tutta l’aria. Ecco: vuole una mia definizione di romanzo? Quaranta righe più due metri cubi d’aria. Io ho lasciato solo le quaranta righe” [4].

Le prose di Pignagnoli sono di lunghezza varia, ma mediamente breve: da una frase a due pagine, numerate in successione e senza titolo. Ma mentre le prose di CENTURIA sono collegate tra di loro solo tramite rimandi interni poco espliciti (per esempio, molte iniziano con la stessa frase “un signore”), le prose di Pignagnoli sono spesso chiaramente continuazioni di altre e spesso si susseguono per associazione di idee: “[...] mio figlio se avesse un figlio, io sarei suo nonno” (chiusura dell’OPERA n. 71); “T’ho mica chiesto io di mettermi al mondo! ho detto a mio padre” (apertura dell’OPERA n. 72).

Ma come le prose di CENTURIA, le opere di Pignagnoli sono suggerimenti di e per romanzi, suggeriscono la possibilità di un romanzo. Sappiamo quanto Calvino avesse apprezzato l’opera di Manganelli, e sicuramente avrebbe apprezzato l’opera di Pignagnoli. Dopo tutto, una delle cose che salta agli occhi è che il libro contiene almeno due delle qualità della letteratura che Calvino, nelle LEZIONI AMERICANE, avrebbe voluto consegnare al ventunesimo secolo. La prima è la rapidità sulla quale calvino afferma: “la concisione è solo un aspetto [...] sogno immense cosmologie, saghe ed epopee racchiuse nelle dimensioni d’un epigramma [...] racconti di una sola frase o di una sola riga” [5]. Di epigrammi e frasi del genere nelle OPERE se ne trovano a volontà:

“Io e Squarcialupi siamo morti già da tre o quattro anni ma è meglio che non si sappia in giro” (OPERA n. 11);

“Mi era andato tutto male, quel giorno, e tornando a casa avevo anche pestato un rospo” (OPERA n. 27);

“Era così contento di aver smesso di bere che, appena giunto a casa, ha strappato una bottiglia e l’ha bevuta d’un fiato” (OPERA n. 30).

Da queste opere sembra inoltre evidente che un aggettivo per descirve gli scritti di Pignagnoli sia quello della leggerezza. Forse non siamo davanti alla leggerezza propugnata da Calvino nell’uso del linguaggio astratto o di una “immagine figurale di leggerezza” [6]. La leggerezza nelle opere di Pignagnoli si trova nell’uso di un’ironia sdrammatizzante che serve comunque allo scopo "sognato" da Calvino: quello di sollevarsi “sulla pesantezza del mondo” e aggiungerei, nel caso di Pignagnoli, sulla pesantezza del sé. I narratori e/o protagonisti delle varie opere sono scarti della società, i dimenticati dalla Storia e dai massmedia, non fanno ascolto. Nascondono (a volte con scarso successo) il peso della propria solitudine dietro un inusuale osservazione della realtà, la creazione di teorie personali e di dissacranti descrizioni. Sono uomini soli, a volte sull’orlo del suicidio, ma ad accompagnarli e perchè no, a salvarli, c’è la loro acutezza nell’osservare le cose e una forte dose di autoironia:

“Le donne s’innamoravano sempre di quello seduto vicino a lui” (OPERA n. 39).

“Domani sarà un giorno uguale a oggi. Ma per alcuni no” (OPERA n. 47).

“Io comunque ho migliorato. Quando sono arrivato in questa città mi volevo impiccare” (OPERA n. 70).

“Bottazzi, gli ho scritto che volevo ammazzarmi, e m’ha risposto solo dopo due mesi” (OPERA n. 90).

L’autore delle opere di Pignagnoli, Benati, sembra guardare la realtà e la pesantezza del mondo così come fa Perseo con Medusa, attraverso - dice Calvino - la “sua immagine riflessa nello scudo di bronzo” [7]; osserva il mondo attraverso un filtro per non farsi risucchiare dalla sua complessità e pesantezza. E lo fa creando tra lui e la realtà un sorta di cuscinetto, mettendo in mezzo un altro autore - Learco - e una serie di narratori attraverso cui lo sguardo moltiplicato dovrebbe aiutare ad attutire l’impatto della sofferenza.

Ma la sofferenza non è l’unica protagonista di questo libro. C’è anche una forte critica a determinati tipi di intelletuali nonchè ad alcune caratteristiche della società (accademica, intellettuale e politica): la faciloneria, la vanità del puro apparire e i luoghi comuni. Ad essere presi di mira sono sopratttutto due scrittori: Alberto Moravia e Alain Elkann, ai quali si aggiungono sporadicamente Sanguineti e Pascoli:

“Le apparenze ingannano, come tutti sanno. Non c’è niente che inganni più delle apparenze [...] prendete un romanzo di Moravia, sono trecentocinquanta pagine. Cosa credete? Di leggere davvero trecentocinquanta pagine? Leggete mezzo chilo di carta, ecco cosa leggete, un mezzo chilo di carta e basta. E cosa c’è in un mezzo chilo di carta? Niente” (OPERA n. 98).

“C’era un professore ad una conferenza che mentre parlava mi era venuta voglia di tirargli un sasso” (OPERA n. 45).

“Io, quando ero giovane, credevo che valessero solo gli artisti, i musicisti, gli scrittori, e che invece i politici fossero delle testedicazzo. Invece mi sono accorto che contano solo le testedicazzo” (OPERA n. 88).

La raccolta delle opere dello scrittore inesistente contiene il romanzo autobiografico di Learco Pignagnoli, GIACOMO, che svela la sua “vocazione” di scrittore e attraverso lo stile e i temi toccati getta luce sulle 245 prose precedenti. Si racconta di come Giacomo abbia cominciato a scrivere all’età di 38 anni. Giacomo, uomo solo senza una donna - come molti dei narratori e/o personaggi delle precendenti opere - vive ancora nella sua cameretta a casa con la madre. La solitudine, palpabile, viene come nelle altre prose, soffusa dalla sottile autoironia:

“Quella sera entrai nella mia camera dove non c’era nessuno al mio sguardo [...] non c’era nessuno neanche di nascosto. Non c’era nessuno nella mia camera e neanche l’ombra di un gatto che potesse comparire lungo il filo del suo orizzonte. Avevo pensato di mettere i quaderni sul tavolo ma non c’era nessuno nella mia camera e ho fatto lo gnorri per un po’ di tempo. Accendevo la luce e poi la spegnevo per fare lo gnorri. Volevo vedere se c’era qualcuno di nascosto perchè di una casa vuota non mi fidavo” (OPERA n. 143).

All’inizio Giacomo viene attratto dalla scrivania e dalla sedia nella sua camera - la famosa sedia dell’impiccato -. Ci racconta di come un giorno compri due quaderni e di come entri in possesso di una matita e della fatica a farle la punta. Poi, finalmente, dopo due anni si siede alla scrivania e con la matita appuntita inizia a scrivere su uno dei quaderni a modo suo “senza ricami”. Le parole gli vengono “da non so dove [....] lasciavo che bussassero alla porta mentre che la testa mi si riempiva di parole” [8].

E così sono le sue opere, le parole si susseguono e dicono quello che devono dire con semplicità e leggerezza, ma colpiscono in profondità. Lo stile del romanzo e delle altre opere è semplice, ricco di ripetizioni e di termini gergali, il tutto “senza ricami”. È il linguaggio parlato su cui l’amico Celati e gli altri scrittori ormai conosciuti come gli scrittori della via Emilia lavorano da anni. Molte delle opere, se non tutte, hanno un effetto più diretto e drastico se lette a voce alta, come probabilmente sono state pensate. Sentire di recente Benati leggere GIACOMO, come ha fatto ad una conferenza, può essere una delle esperienze narrative più profonde e vibranti. Dietro alle risate che proprio l’autoironia, le ripetizioni, il gergo - appunto la leggerezza - creano, si percepisce una forte tristezza, la pesantezza del vivere.


NOTE

[1] Il comitato per la pubblicazione delle Opere di Learco Pignagnoli, p. 10 di AVVERTENZA, in LE OPERE COMPLETE DI LEARCO PIGNAGNOLI, cit., pp. 9-11.
[2] Disponibile online, nel sito di Gisy: http: // www. gisy. It / page. php? Section = interviste & name = pignagnoli # pignagnoli.
[3] S. Batterzaghi, TLONISTI, “La Repubblica”, 26-9-2006.
[4] S. Giovanardi, CENTO BREVI ROMANZI FIUME, intervista con Manganelli, “L’Avanti”, 8-4-1979.
[5] I. Calvino, p. 673 di RAPIDITÀ (LEZIONI AMERICANE), in SAGGI, I, Milano, Mondadori, 1995, pp. 656-76.
[6] I. Calvino, p. 644 di LEGGEREZZA, ibidem, pp. 631-55.
[7] Ibidem, p. 632.
[8] L. Pignagnoli, p. 152 di GIACOMO, ROMANZO AUTOBIOGRAFICO DI LEARCO PIGNAGNOLI, in LE OPERE COMPLETE…, cit., pp. 135-52.


[Monica Francioso]