06/08/07

Ivano Mugnaini, VERSO IL CASTELLO DEL VISCONTE DIMEZZATO


[Symmetric labryrinth. Foto di Marzia Poerio]


Giunti fin qui, riattaccati alla meno peggio, noi, Medardo di Terralba e l’altra parte di me, sediamo immobili sulle colline che sovrastano le lande di Pratofungo, la terra dei lebbrosi. Iniziamo, per forza, per necessità, a parlare. Per accorgerci innanzitutto di aver preservato l’abitudine appresa quando Medardo ed io davamo corpo e vita alle membra sbilenche e separate del Visconte Dimezzato. Lo Zoppo, lo Sgorbio, il Buono, il Gramo, tutti insieme e tutti divisi in un caos appassionato. Dopo l’opera di “collage” condotta miracolosamente a buon fine dal dottor Trelawney, siamo ancora due. Duplici in un unico organismo. Ancora costretti a dire “noi” quando dovremmo dire “io”, già capaci di anticipare e mettere in pratica le parole di un medico dei folli in grado di penetrare all’interno della scatola cinese dei pensieri. “Io è un altro”, dirà lo strizzacervelli. Oscuro e limpido, vissuto, sperimentato giorno dopo giorno. Da noi sicuramente.

Siamo ancora due. Ci siamo scannati in duello, inseguiti, sfuggiti, riacciuffati, sgusciati via di nuovo per ritrovarci qui. Ancora costretti a dire “noi”, lo ribadisco con dolore, assicurandovi altresì che non si tratta di un “plurale majestatis”. Non c’è niente qui che abbia a vedere con la maestà, la grandezza. Se non l’immensa confusione che ancora regna. L’incertezza sul chi e sul come, per non parlare del perché, chimerica utopia.

Ci siamo parlati, noi Medardo, si siamo detti che solo il viaggio, il moto, il sudore sulla fronte, paura e gioia del mutamento, potranno forse regalarci la meta più ambita: la comprensione. Abbiamo provato a stabilire a priori dove andare. Ma ad ogni “nord” ha fatto eco un “sud”, ad ogni “ovest” un “est”. Alla fine abbiamo lasciato che fosse la strada a indicare se stessa, l’alternarsi di curve e rettilinei, salite e discese, fame di vedere e non vedere, pensare e smettere di farlo.

Nello zaino abbiamo messo le poche certezze condivise, quelle che entrambi riteniamo imprescindibili, degne di essere custodite e caricate sulle spalle passo dopo passo. La prima, quella di base, ferita e radice: la certezza che in guerra si muore. Noi siamo un caso particolare. Privilegiato. Letterario. Siamo di carta, di fantasia, oltre che di carne sbrindellata e rattoppata. Siamo sopravvissuti perché così faceva comodo al nostro Autore. In genere però, quando capita ciò che è successo a noi, quando si viene presi in pieno da una cannonata, si muore. Che si venga spezzati in due, in tre, in mille o diecimila pezzi. Anche se si combatte per una guerra che qualcuno ti ha detto essere “giusta”. Si muore, rapidi, all’istante, senza tempo di dire nulla, né a se stessi né ai posteri, e nemmeno a quel grand’uomo che ti ha mandato lì, davanti ad un cannone a farsi sfracellare per una “missione di civiltà”, per il benessere del genere umano. Di solito, questo almeno è chiaro, l’umanità muore quando viene colpita da cannonate, benché civilissime. Noi, Medardo e io, siamo ancora vivi, sulla carta, nella dimensione eterea e tenace della parola, per ribadire che in guerra, quella vera, si crepa sul serio invece, nel fango, nel sangue, tra mosche assai poco capaci di distinguere gli ideali di ciascuno e le reciproche divise. Siamo privilegiati, necessita sottolinearlo ancora. È questo che rende pesante, e lieve allo stesso tempo, lo zaino che portiamo con noi.

È giusto provare a dare un senso alla nostra peregrinazione. Eppure, sebbene partiti con le migliori intenzioni, vaghiamo dapprima senza una destinazione precisa. Tutto ciò che riusciamo a fare è borbottare, far rimbombare propositi in una testa che, per beffa ulteriore, è una. Una soltanto. Sebbene più affollata di una palazzina di periferia o di un campo profughi. Ad ogni bivio, ogni rotonda, ci muoviamo in circolo come trottole giulive. Senza pensare che presto o tardi qualche pirla prepotente dotato di patente in corso di validità, ma non altrettanto di quell’accessorio denominato coscienza, sbucherà fuori come un razzo fregandosene beatamente della precedenza e del diritto. Ci prenderà in pieno, magari spezzandoci in due. Ironico ritorno al punto di inizio. Elevamento del caos all’ennesima potenza. No, bisogna tentare di stabilire un percorso, un luogo in cui cercare di giungere. Imparare a scegliere. Magari basandoci su quel poco e quel tanto che ci è stato insegnato dai poeti: “There is nothing either good or bad but thinking makes it so”. Il buono e il cattivo dipendono dal pensiero che li rende tali. La strada in sé non è giusta né sbagliata. I passi contano, quelli sì, il modo di calpestare il terreno, ferendolo o sfiorandolo. Ecco, la lievità può farci arrivare dove ci si può ritrovare. La leggerezza tanta cara al nostro Autore. L’arte dell’ironia che ti salva dalle sabbie mobili e dai pantani. Vedere un lato della luna pensando anche all’altro. Forma di chiarore che non acceca, voce più fresca, più chiara. La libertà, quella autentica. Forse, la meta. Già, ma dove cercarla? Ci siamo guardati, Medardo e io, e, per una volta, ci siamo trovati d’accordo: in prigione! Chiaro, no? La luce nel buio, il sorriso della luna che non vedi.

Traballanti ma anche noi sorridenti, abbiamo ripreso il cammino con nuova lena. Verso la meta delle due metà. Il gioco è già nelle parole. Basta farlo uscire entrando in punta di piedi al suo interno. Solo l’accento fa la differenza. E l’accento, si sa, è una minuscola falce di luna d’inchiostro.

La guerra ci ha divisi, l’amore per la stessa donna ci ha riavvicinati, allontanati e messi di nuovo a contatto, per bisogno vitale. Ora è la strada a dire a ciascuno chi è, a proclamare se uno è destinato a prevalere sull’altro. Andiamo avanti ripensando ciascun passo e luogo lasciato alle spalle. A cominciare dal “sentiero dei nidi di ragno”. Per dirci, finalmente, che niente accade per caso. Che l’oblio a volte è colpevole quanto un misfatto. Che certe forme di dimenticanza uccidono ancora, accendono altri roghi, pugnalano nella notte chi prega o sogna in modo differente, sparano su corpi di donne e bambini sulle colline, sui monti dell’Appennino, nei villaggi del deserto. Dimenticare è la colpa più grande. Nuova strage, uccisione del sé da parte del sé. Medardo e io lo sappiamo bene. Lo ricordiamo l’uno all’altro, per sognare di non ucciderci più. Condividere lo stesso spazio, le stesse aspirazioni. L’amore. La parola spaventa, come una donna troppo bella. Beffarda, a tratti, crudele. Si muore, fuori e dentro, per raggiungerla, e ci si stanca magari un passo prima o un passo dopo. Oppure si scivola in basso, come tanti Sisifo rintronati che sbattono le mandibole sulle rocce senza smettere di ghignare. Ma necessita proseguire. Rimettersi in marcia per una nuova scalata. Per guardarla meglio negli occhi, la donna beffarda. Accorgendosi che non è beffarda per nulla, magari. Sorride anche lei, specchio, lago di alta quota.

Concordiamo, Medardo e io, un primo dietrofront. Torniamo nella terra dei lebbrosi, quella che abbiamo schivato con cura maniacale tenendoci sempre a debita distanza. Scoprire, come accade ad un certo momento ad ogni galeotto Papillon, che si può stringere le mani di un lebbroso e fumare il suo stesso sigaro. Accorgendosi di non contrarre la malattia, riuscendo però a condividerne l’orrore e la paradossale gioia. Quella che ti salva la vita, che ti fa andare avanti verso una libertà nuova. Capire che anche loro, i diversi, i lebbrosi, sanno ridere e cantare e fare feste fino all’alba accogliendo i nuovi arrivati con musica e danze, con entusiasmo puro, sano.

Ricordiamo, qui ed ora, nella terra desolata e felice di Pratofungo, che invece noi, fondamentalmente identici l’uno all’altro, ci siamo battuti a duello e scannati. Mostrando ancora una volta che ogni uomo in fondo si avventa “contro di sé con entrambe le mani armate d’una spada”. Oppure si scaglia contro le minoranze, gli Ugonotti di qualsiasi luogo e qualsiasi tempo. Colpevoli di essere pochi, strani e scomodi agli occhi del potere. Allora, la cosa più naturale risulta molto semplice: massacrarli. Con zelo, con una ragione che, ancora una volta, viene detta santa e adornata di aureola d’ordinanza. Sterminare gli Ugonotti, da sempre, è la regola. L’Editto di Nantes si rinnova e si perpetua ogni giorno, da secoli.

Ciascuno esige che tutto e tutti si conformino, si modellino ai parametri. Anche e soprattutto questo sappiamo bene, Medardo e il sottoscritto. Non a caso abbiamo entrambi desiderato che tutte le cose intere fossero, come noi, dimezzate. Ufficialmente per farle più chiare, più lineari. In realtà il progetto era di renderle uguali a noi, allineate.

Proseguiamo finché la notte prende il posto della luce del giorno. Da qui, da questo bivacco improvvisato, riusciamo a distinguere nitidamente i fuochi fatui. Quelli a cui il dottor Trelawney ha dedicato anni di studio. I fuochi fatui, con la loro origine apparentemente inspiegabile. Come il fatto di essere schiacciati ognuno dal peso di qualche miseria: ambizioni, identità, ricerca del sé. La realizzazione del proprio essere completo. Questo ci ricorda qualcosa. Richiama me e Medardo al completamento del cammino.

L’incontro con altri Cavalieri Inesistenti, gonfi soltanto di una straripante stima di sé. L’armatura vuota, di due misure più grande, dentro cui si muovono e si trascinano. Accanto ai Baroni Rampanti, abitanti dei rami più alti degli alberi. Quelli che si aggrappano alle funi delle mongolfiere per scomparire nel cielo. Anche questa soluzione lascia tutto come prima. Il “pathos della distanza” è suadente ma non basta. “Libertà è partecipazione”, dirà un giorno uno stralunato e geniale cantastorie.

Forse ci aiuterà a trovare una possibile risposta, o la speranza di una risposta, la tappa finale del percorso: il Castello d’If, luogo di dimora e prigionia del Conte di Montecristo. Carcerato a vita, come noi, tra mura di pietra e di carne. Eppure libero se... if, appunto... ancora una volta le parole sono cose colorate, mattoncini da incastrare, giochi ironici, come la vita.

Sarà libero, il Conte, proprio come noi, se saprà scavare con tenacia empirica nella terra, e, allo stesso tempo, continuerà a ragionare. Per dedurre che il senso è nella ricerca, nel viaggio più che nella meta. È poco, certo. Ma è tutto ciò che abbiamo. L’attimo in cui senti di poter uscire liberamente, di poter spezzare tutto tranne che le sbarre del sé. Galera inesorabile che può essere ricchezza, potenzialità, gruccia che regge membra lacerate, oppure volo, ebbro, calibrato, in spazi nuovi.

Essere un po’ Faria e un po’ Dantès. Scavare a mani nude e architettare disegni di resistenza e controffensiva. Sentirsi sani, integri seppure stanchi, felici dei passi fatti e della strada ancora da fare, ascoltando con un sorriso le parole di Edmond Dantès.

“Continuiamo a fare i conti con la fortezza, Faria sondando i punti deboli della muraglia e scontrandosi con nuove resistenze, io riflettendo sui suoi tentativi falliti. Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera - e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai; ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sa che sta qui perché non potrebbe trovarsi altrove - o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui - e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste; basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con quella vera per trovarla”.


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TRE DOMANDE A IVANO MUGNAINI


1. Il Suo racconto è articolato su testi di Italo Calvino. Questo autore, a Suo parere, ha lasciato un’eredità importante?

A mio avviso Calvino rimane un autore fondamentale. In un'epoca come la nostra in cui la scrittura letteraria tende non di rado a divagazioni impalpabili o a elucubrazioni sterilmente filosofeggianti di impronta cronachistica, è sempre utile rileggere un autore che ha dato prova tramite i suoi testi di come sia possibile invece abbinare la fantasia al senso, al significato. Ponendo fianco a fianco la leggerezza, sempre fondamentale, sempre salvifica, e la consistenza,la qualità della parola e della mente esaltata da Calvino nella sue Lezioni americane. Una scrittura lineare che conduce alla percezione di qualcosa che va oltre la superficie, la magia spontanea dell'esistere.


2. Cosa significa, per Lei, parodia?

La parodia può essere di vario tipo, dalla becera presa in giro ad una rivisitazione più sobria. Per quanto mi riguarda, credo che le mie "riscritture" di testi di autori a me cari, non siano, in senso stretto, delle parodie, ma piuttosto dei tentativi di proseguire il discorso iniziato; magari, come nel caso del Visconte calviniano, conducendo i personaggi, e lasciandomi condurre a mia volta, verso nuovi sentieri, meccanismi narrativi che riprendono ritmo e vita.


3. Che rapporto c’è tra il testo letterario e la vita?

Quest'ultimo quesito è, tra i tre che mi sono stati posti, il più impegnativo. Credo che ogni autore, ogni lettore, ogni uomo, possa e debba trovare un risposta del tutto individuale. In quest'ottica un approccio alla risposta è possibile: immergendosi nel ruolo di "creazione" o "ricezione" di un testo si realizza in modo naturale e alchemico quell'interazione tra parola e realtà, tra testo e vita, che, quando viene teorizzata, corre il rischio di risultare astrusa, quando è vissuta in modo autentico, al contrario, è in grado di fornire a ciascuno degli elementi del binomio quel livello ulteriore di comprensione e emozione che costituisce da sempre la forma di attrazione più essenziale della letteratura.


[Intervista a cura di Roberto Bertoni]