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A cura di / Ed. Roberto Bertoni.
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ISSN 2009-7123
22/05/07
Stefan Agopian, IL MANUALE DEGLI EVENTI (a cura di Paola Polito)
[Stefan Agopian (per gentile concessione dello scrittore). Foto: ©Nicu Ilfoveanu]
Stefan Agopian (Romania, 1947) ha pubblicato i romanzi Ziua mîniei (1979), Tache de catifea (1981 e 2004), Tobit (1983, rivisto nel 2005), Manualul întâmplărilor (1984), Sara (1987, rivisto nel 2006), Insemnari din Sodoma (1993), Fric (2004), e l’opera teatrale Republica pe eşafod (2000).
Voce molto singolare, non direttamente inquadrabile in una particolare tradizione letteraria o generazione di scrittori del suo paese, Stefan Agopian è assimilato dalla critica romena alla corrente „antirealista”, basata sull’invenzione, sull’uso della parabola e dell’allusione, fiorita particolarmente negli anni ’60, un decennio di relativa liberalizzazione dopo il "realismo socialista” degli anni '50. Impostosi all’attenzione con Tache de catifea, S. A. segna un cambiamento nel panorama letterario per il suo approccio ludico, parodico alla Storia, la compresenza di personaggi reali e fantastici, e il sovvertimento della logica storica attraverso una logica narrativa aleatoria, costruita per varianti, alla Borges.
"Ştefan Agopian [...] è autore d’una prosa che istituisce un mondo a parte, di gioco testuale, uno spazio della nostalgia ironica e sarcastica, dominato dall’ossessione della degradazione dell’umano, privato di trascendenza, a dispetto degli onnipresenti segni di quest’ultima.” (Ruxandra Ivăncescu, 2000).
Questa la vicenda di Manualul întâmplărilor (IL MANUALE DEGLI EVENTI):
"Avendo come legante e centro narrativo un trio picaresco costituito da Ioan Il Geografo, l’Armeno Zadic e Ulisse l’Uccellone, le sei storie compongono un unico romanzo, i cui protagonisti sono 'esseri di carta'. La mescolanza di fantastico, onirico e libresco dà vita a un’ illusoria avventura di viaggio verso l’Egitto. Gli eroi non arriveranno mai alla patria delle dottrine arcane e dei culti esoterici ma, dopo battaglie assurde, libagioni e disquisizioni sofistiche, di locanda in locanda, finiranno in un Lazzaretto, benché nessuno fra loro porti segno evidente di malattia, se non di quella comune a tutti i personaggi di Agopian: l’indifferenza. E la rivelazione finale [...] trasformerà gli eroi in angeli, simili nell’aspetto a Raffaele, l’angelo macchiatosi della materialità della vita terrena, toccato dalla morte fin dalla sua apparizione in terra” [ibidem].
Della sequenza di 6 storie, si propone qui una prova di traduzione della prima, Mortea pentru patrie [LA MORTE PER LA PATRIA].
Traduzione di prova del primo capitolo del romanzo breve di Stefan Agopian, Manualul întâmplàrilor / IL MANUALE DEGLI EVENTI (prima ed. 1984), 2001
LA MORTE PER LA PATRIA
La città entrò nella primavera rapidamente e l’aprile divampò come una luce nei cuori della gente, rallegrandola. Un venticello leggero s’insinuò tra le case, soffondendole d’una luce dorata, senza fine. Gli alberi spolverarono la città d’una pioggia bianca e giunsero gli uccelli palustri, desiderosi d’accoppiarsi.
Nell’anno 1807 andavano di moda i balli moscoviti, Pasvanoglu era passato nel dimenticatoio e i turchi avevano un po’ allentato il morso sul paese, stremati dai russi.
Quel diciassette aprile, Marin Ioan, maestro alla scuola di Colzia, si svegliò intontito, con la testa pesante; il sole gli stava rosicchiando la nuca come un verme e un’aureola, per colmo di derisione, gli s’era acciambellata sopra la testa come un vapore. Lì vicino, con un pezzo di conferva [1] sopra la faccia, dormiva Zadic l’Armeno, russando beato.
Ioan rimestò per un po’ nel fango e i bambini risero a crepapelle; non sapevano che lui era maestro alla scuola di Colzia, così risero sempre più forte, e anzi gli tirarono qualcosa contro, a completare la beffa. Ma Marin Ioan, il maestro, non ci badò. Raccolse dal fango un tallero con l’effigie di quella grassona di Maria Teresa e alcuni argenti [2], solo che il tallero era molto smangiato sui bordi e se ne amareggiò. Ne avrebbe voluto uno nuovo di zecca, non così consunto, e con l’effigie di Francesco, il nuovo imperatore delle Austrie e d’altri paesi. Poi scrollò l’Armeno, per svegliarlo. I bambini risero di nuovo, ma questa volta più da lontano. Zadic l’Armeno si svegliò, si scosse di dosso alcune rane illanguidite dal suo calore, poi si alzò, ma non come chiunque, bensì prima a quattro zampe, rimanendo così per un po’, senza saper bene neppure lui perché, standosene così, insomma, senza un pensiero al mondo, in quel fossato puzzolente, finché si rimise a dormire. Ioan Marin, ossia il Geografo, pensò a quanto è grande questo mondo e a che poca cosa era lui in fin dei conti. E mentre pensava a tutto questo, a come il mondo era sterminato e lui al confronto un nonnulla, uno sputo in quest’acqua puzzolente, l’Armeno si tirò su dicendo: - Dài, vecchio mio, che è tardi!
Un sole verdastro si stese sopra di loro.
Zadic l’Armeno, esausto e infangato come un passero, riuscì non di meno a raccogliere le forze, s’innalzò sopra gli eventi di questo mondo e da là disse: - Amico mio, andiamo ad arruolarci sotto il voivoda Ipsilanti e a battere i turchi, che è meglio di niente. Se non hanno paura i russi, non ne ho neanch’io. O forse ne hai tu?
- No, perché dovrei? disse Ioan il Geografo dal suo pantano. Non ho paura neppure del diavolo! aggiunse, e si fece rapido in bocca il segno della croce con la lingua, e Zadic l’Armeno sputò in aria e si fece anche lui il segno della croce con la lingua.
Un vento carico di profumi s’abbatté sui due asciugando i loro vestiti.
Venne un cane ad annusarli un po’, poi agitò la coda amichevolmente e si allungò lì vicino. Zadic l’Armeno si frugò addosso a lungo e quando trovò quel che cercava, un soldo, lo diede al cane. Il cane si alzò lentamente, annusò il soldo, agitò ancora la coda e alla fine si sedette.
- Questo cane è scemo, vecchio mio, o che diavolo gli prende? disse Zadic l’Armeno.
- Può darsi, che ti aspetti da un cane? Ma andiamo, che è tempo.
A un certo punto s’incamminarono, e il cane dietro e poi anche davanti, come gli pareva a lui.
- Questa dev’essere la vigna di Gheorghe Tuttorode, disse Zadic guardandosi intorno.
- Può darsi, disse Ioan, ma io dico che invece è di Formion, quello che ha mandato il figlio a Parigi e che per questo ha venduto la vigna a Radu lo Storpio, che l’ha data in mezzadria a Hristea di Dumitru Grecu per cento ducati, 10 aquile e 12 argenti [3].
- Aha! disse Zadic, ma io avevo sentito dire che a Hristea Grecu gli è presa una malattia al cervello e che adesso la vigna gliela tiene il suo fratellastro, un certo Tache Polihroni.
- No! disse Ioan, Tache Polihroni è mio zio di parte materna, non è lui a occuparsene, ma la donna di Hristea, una certa Maria Bonjescu.
Parlarono così per un po’, poi si stesero sotto un noce nodoso a riposare di nuovo, e anche il cane si allungò vicino a loro.
- Oggi dev’essere festa, disse Zadic, perché non abbiamo incontrato nessuno.
- Sarà la Domenica delle Palme, disse Ioan. Quest’anno Pasqua cade molto presto.
- Vuoi vedere che oggi è Pasqua e non ne abbiamo saputo niente? disse Zadic.
- No! disse Ioan, se era così si doveva andare a messa ieri sera e noi non ci siamo andati.
Il sole si alzò sulle loro teste e l’aria odorava pazzamente di erbe arroventate dal mezzogiorno.
Da qualche luogo lontano il vento portò alle loro narici l’odore della camomilla.
- Abbiamo fatto bene, vecchio mio, a fermarci un pochino per non stancarci troppo. Come disse Platone, l’anima dell’uomo…
- Sì, lo so, disse Ioan, la Prudenza, la Fortezza, la Giustizia, la Moderazione. “La Prudenza ci mostra per prima la Beatitudine e le altre virtù ci conducono come tre cammini uguali alla stessa Beatitudine”.
- A ben vedere, vecchio mio, disse l’Armeno, perché ci sarà bisogno di quattro vie, se una è anche troppa?
- Marsilio Ficino, disse l’altro, mostra che una sola via è sufficiente: “perché per questo talento che portano in sé, alcuni affrontano con animo forte sia la morte per la Fede, che la morte per la Patria, che la morte per i genitori”.
- I miei sono morti da un pezzo! disse l’Armeno e tirò fuori una borraccia, la scosse e quella suonò mezza piena, con uno sciabordio che li rallegrò.
Bevvero per un po’ in silenzio. Vedendoli così, il cane si alzò e agitò piano la coda. L’Armeno versò sull’erba un po’ del contenuto della borraccia e il cane leccò il liquido fumante e profumato.
- Guarda come beve, vecchio mio! si rallegrò l’Armeno. S’ubriacherà?
- Affari suoi! disse Ioan, il maestro della scuola di Cozia. Siamo anche noi in qualche angolo della Mente Angelica e ci stiamo in silenzio, mentre qui parliamo e beviamo. Ma anche queste parole e questa bevanda sono là, solo che la bevanda non la beve nessuno e le parole non le dice nessuno, stanno semplicemente tra altre parole e altre cose e non ne viene fuori nulla, dal loro stare.
- Stanno tanto per stare, disse Zadic l’Armeno, e poi bevve dalla borraccia, l’alcool gli andò per traverso, tossì, lacrimò, tossì di nuovo, disse: Là stanno tutti i nostri atti fino alla fine e noi non li conosciamo per niente e non c’è differenza fra loro, come qui, perché all’inizio o alla fine sempre della stessa cosa si tratta.
Ioan prese la borraccia e bevve, poi i due tacquero di nuovo, nel caldo di quel mezzogiorno senza fine. In lontananza, come attraverso un vetro ondulato, videro dei soldati fare esercitazioni. Si muovevano come marionette ben addestrate. Poi rimbombarono i fucilini che all’inizio avevano tenuto sulla spalla. Doveva essere una truppa di russi, conclusero i due dopo aver osservato per qualche tempo.
Poi venne a disturbarli un nano baffuto.
- Per bacco, amico, disse l’Armeno, perché stai qui davanti e non ti fai un po’ da parte, che voglio vedere anch’io fino alla fine quel che fanno i russi?
- Adesso si riposano, disse Ioan il Geografo, guardando attraverso le gambe del nano.
Il nano continuava a stare lì, a gambe divaricate, feroce. Gli s’erano arruffati i baffi per la furia e grandi gocce di sudore gli grondavano dalla fronte giù a terra.
- Diavolo d’un nano! disse l’Armeno, infuriato di non riuscire a vedere niente, anche se i russi adesso si stavano riposando.
Quando suonò una tromba, il nano trasalì e disse:
- Ma guarda questi! Cosa ci fate qui?
Zadic l’Armeno accennò una risatina.
- Vecchio mio, disse, vuoi vedere che questo disgraziato d’un nano, con tutto questo caldo, cerca d’attaccar briga con noi?
- Non credo, non sarà mica così stupido!
- Vecchio mio, sappi che i nani sono stupidi! disse l’Armeno.
La tromba suonò di nuovo, stridente, spaccando il mezzogiorno.
- Sono venuti molti altri russi adesso, disse Ioan, che si era messo di nuovo a guardare.
Il cane si alzò e abbaiò brevemente verso i russi, come spaventato, poi si coricò di nuovo. Alcuni alberi di pruno, lì vicino, piano piano scrollarono a terra una bianca nevicata di fiori.
- Che succede? trasalì l’Armeno a un certo punto.
- Niente! disse Ioan, i russi se ne sono andati e dietro di loro se n’è andato anche il nano.
- Senti, disse Zadic l’Armeno, potremmo andare a giocare a dadi alla Passerina [4], ma non abbiamo soldi.
- Possiamo andarci lo stesso! disse l’altro, conosco uno che ci darà i soldi per giocare e se perdiamo non gli restituiamo niente, mentre se vinciamo gli diamo metà della vincita o forse di più, adesso non ricordo.
Bevvero dalla borraccia fino a che la svuotarono completamente, perché non vi restasse niente da gustare. Per un po’ si sentirono più leggeri, liberati dal desiderio, poi li riprese la voglia di bere investendoli come una tenebra e ognuno pensò a qualcosa di bello, per dimenticare: Zadic ai balli russi dove entrava mascherato da turco a spaventare le ragazze sudate e Ioan il Geografo all'Inghilterra, dove non era mai stato. Poi non poterono più pensare a tutte queste o ad altre cose che fossero in quel meriggio tiepido e profumato.
E di loro non si è più saputo niente, se non queste parole che Ioan ha scritto su un suo libro, Gheografia: “Si sappia che questo libro, Gheografia, cioè scrittura di tutta la faccia della terra, l’ha comprato il sottoscritto per talleri sei.”
NOTE
[1] Alga gialla d’acqua dolce.
[2] Sfanzi: antica moneta austriaca d’argento.
[3] Zgripzari: moneta austriaca con l’aquila bicipite.
[4] Pàsàricà: diminutivo di “uccello”; qui nome di un locale, ma è esplicito anche il richiamo a espressioni come "a avea o pàsàrica la cap" (avere qualcosa che frulla per il capo, una fissazione, una fantasia), "fiecare are pàsàrica lui" (ognuno ha la sua fissazione, la sua fantasia); nel gergo popolare, "pàsàricà" indica affettuosamente l’organo sessuale femminile.
[Presentazione, traduzione e note di Paola Polito]