20/05/07

Biancamaria Frabotta, GLI ETERNI LAVORI


[Love. Foto di Elizabeth Hutcheson]

I protagonisti di GLI ETERNI LAVORI (Genova, San Marco dei Giustiniani, 2005), che mettono in scena gli "eterni lavori" del titolo, sono uccelli chiassosi, sapienti e fantasiosi costruttori dei loro nidi. Quei nidi, intorno ai quali si agitano e si attivano come fossero indistruttibili, "alle tormente d'inverno, li riconsegneranno".

Una casa nella campagna grossetana come quella che Biancamaria Frabotta ha voluto per sé, anche lei "nel sito che più gli aggrada", è osservatorio spalancato sulla natura e, come da uno specchio panoramico, rimanda e focalizza l'immagine – i pensieri – di lei che si è posta in contemplazione.

Gli oggetti, la casa - scelta e costruita secondo un progetto, amata - sopravvivrà probabilmente al suo costruttore. Gli oggetti, anche i paesaggi, rimangono. Più degli amici, più dei genitori, più di noi stessi. Rimarranno vuoti della presenza di chi li modificò a suo piacimento. Altri ne godranno, cambiando – anche loro – col trapianto di nuovi alberi, tagli e sradicamenti la geometria dello spazio intorno: "Direbbe il vecchio proprietario / che non riconosce più la sua terra..."

Tutto questo è normale, ma la costante consapevolezza di tale normalità, proprio perché così vanno le cose e non c'è nulla da fare, è una ferita che non si rimargina. La realtà della natura appare nitida, ma come attraverso un vetro. Pertanto la presa, che si vorrebbe salda, è vietata. Non si smorza l'acutezza dello sguardo, anche se si aggira intorno "sulla verità muta dei campi" sempre come fosse l'ultima volta, facendo vibrare nella voce e dentro la poesia le note dell'idillio melanconico.

Quando la Frabotta viene a parlare delle persone, forse perché parla solo di amici e ad amici, la sua melanconia si fa meno fitta e avvolgente, la riflessione non invita più alle similitudini e alle analogie che riguardano l'esistere in sé. Lo stile inoltre si allontana dall'osservazione che - seppure aguzza, seppure pungente - confina col vagheggiamento, per farsi più colloquiale, anche lì dove parla di malattia e di morte, del distacco definitivo da un'amica. Nelle poesie dedicate alla morte e alla malattia dell'amica appunto, l'autrice trova il coraggio di sorridere, anzi di ricordare il riso: "Quanto avevamo riso / serena idolatria del giorno".

"Serena idolatria del giorno": come dire più solamente la gioia di essere al mondo, l'accettazione partecipe della vita e delle strade che inopinatamente imbocca? Sentimento che mi pare accompagni anche l'ultima poesia per Giovanna:

"Manca un fiore
alla tua tomba recente.
Non avertene a male
se lo rubo a un vicino.
Nutrita è la sua scorta
e perdonerà il furto.
E' la prima estate
che t'ho voltato le spalle".

Il libro si compone di cinque sezioni. Mi sono soffermata fin qui sulle prime due scritte dall'osservatorio della casa di campagna (che si compongono di sette liriche ciascuna), e ho fatto riferimento alla terza: dieci liriche dedicate a Giovanna Sicari.

La quarta sezione (anch'essa di dieci liriche, lo sottolineo perché mi pare di scorgere in questo una studiata geometria, che comprende inoltre una lirica d'apertura e una di commiato), si rivolge agli amici poeti, la quinta al marito. Qui ascoltiamo le note smorzate dell'abitudine amorosa, come d'un piano a cui, per poterlo suonare a piacimento, a qualsiasi ora del giorno e della notte, occorre mettere la sordina. I sensi si risvegliano in un interno, senza l'interferenza delle voci, dei presagi della natura: "sciabordìo" dalla cucina, caldo che rimane nella "cunetta del lenzuolo", sensazioni tutte che non rimandano all'enigma che ci travolge, ma alla quotidiana, "consenziente vita".

[Piera Mattei]