[Le foto di questa pagina sono di Mary Keating]
In SHALIMAR THE CLOWN (2005; Londra, Vintage, 2006), Maximilian (Max) Olphul, già ambasciatore statunitense in India e funzionario dell’antiterrorismo viene ucciso da Shalimar il clown, un terrorista del Kashmir. Si scopre gradatamente che se in questo omicidio l’aspetto politico ha un senso importante, esso più di tutto deriva da motivazioni passionali: la vendetta di un marito tradito dalla danzatrice Boonyi, che ha seguito anni prima Max in Occidente, diventando la sua amante, ha avuto da lui una figlia illegittima (India, poi ribattezzata col nome originario di Kashmira), cresciuta dalla moglie legittima e divorziata di Max. La vendetta di Shalimar si estende a Boonyi ritornata nel Kashmir; poi a India/Kashmira, che tenta di uccidere quando fugge dal braccio della morte in cui è stato chiuso dopo un processo.
Si muove su scala planetaria questo romanzo, i cui protagonisti partecipano di identità in parte locali e in parte caratterizzate dal contatto tra culture diverse: il Kashmir agitato dalla contesa tra India e Pakistan e dalla guerriglia negli anni ’80 e ’90; gli Stati Uniti dello stesso periodo di tempo; l’Europa degli anni ’30 e ’40.
L’intreccio è costruito dando voce, in terza persona, in una successione di parti, ai personaggi, che ad esse danno i titoli, India, Boonyi, Max, Shalimar the clown, tramite un narratore che usa integrandoli il discorso indiretto libero e un’angolazione onnisciente, esprimendo una molteplicità di individualità interrelate e còlte in un intreccio denso, con comportamenti nati da motivazioni psicologiche radicate nel passato di ciascuno di loro, addentellate alla realtà politico-sociale e fatalmente intese a creare e distruggere relazioni parentali sfortunate, o meglio tragiche.
La vicenda si viene a conoscere aggregando man mano le informazioni fornite sugli eventi, la cui cronologia si svolge con salti partendo dal 1991, regredendo ai presupposti dell’omicidio del primo capitolo, quindi tornando e superando la data iniziale.
È un romanzo politico, un giallo, il racconto di una vendetta, una storia d’amore, un racconto di generazioni. Narra di solitudine, infelicità, sentimenti di difficile realizzazione.
La guerra per il Kashmir è data nella sua efferatezza. Alita nello sfondo il terrorismo su scala internazionale.
Gli avvenimenti si svolgono in modo realista, ma comprendono elementi favoleggianti (ad esempio Shalimar fuggendo di prigione scala un muro e prosegue nel cielo; e uno dei personaggi ha una predilezione per “the magic realist Tchelitchew”, p. 225). Ci sono riferimenti metatestuali alla narrativa intesa come contraffazione (“you should dedicate your life to being a forger”, ibidem). Il confine tra realtà e letteratura è incerto; si ha esperienza della “bizarre sensation of living through a metaphor made real” (p. 145).
Il finale resta aperto, con un agguato tra i due avversari principali, al momento della resa dei conti, armati uno di pugnale e l’altra di un arco la cui freccia è pronta a essere scoccata (come in TI CON ZERO di Italo Calvino, di cui Rushdie è lettore attento?).
Si tratta in breve di una storia complessa che, mentre si rivolge a un pubblico ampio raccontando con chiarezza e in una lingua ben comprensibile a tutti, respinge l’appiattimento sulla semplificazione della tecnica narrativa, ricorrendo ora alla descrizione, ora al monologo interiore, ora al dialogo. C’è un senso di tragedia incombente sulle sorti dell’umanità, rappresentata attraverso la guerra intestina, la disintegrazione della concordia interreligiosa e interetnica in Kashmir, la violenza perpetrata dagli eserciti regolari oltre che che da quelli irregolari, la manipolazione del consenso da parte delle istituzioni (soprattutto negli Stati Uniti), l’impostazione di una difesa al processo sulla base di un sospetto di stregoneria che rimbalza sui mass-media e viene creduto e propagato, la realtà apparentemente paradossale di come siamo oggi.
[Roberto Bertoni]