07/03/07

Paola Polito, LA VOCE



[Musica. Schizzo di Laura Vecchi Ford]
















La logopedista mi ha spiegato che avevo perso la voce perché stavo attraversando un periodo diverso dal solito, triste o più triste di prima, e che la tristezza m'aveva portato inavvertitamente ad usare per giorni, forse per settimane o mesi, una voce più fonda di quella che avevo in sorte. Sono andata da lei una decina di volte a respirare e produrre astrusi gorgheggi. Riscoprivo l'alfabeto, le sillabe, lallavo e declamavo in scala pippomangialamela. Emilia aveva ragione: il lutto m'aveva spento piano piano la voce fino a ridurmi al silenzio. Dovevo riportare la vita dentro di me e avrei ritrovato una voce, forse addirittura quella vera. La mia istruttrice era una donna franca, una coetanea senza trucco e tinture, con una frangia austera sopra occhi intelligenti e una lunga treccia grigia che sembrava dimenticata lì sulle spalle dall'adolescenza. Dopo quattro lezioni mi ha detto che era un vero peccato non fossi più giovanissima perché era chiaro che ero nata per fare la cantante lirica. Ho accolto la rivelazione con una risata fragorosa. Nelle settimane seguenti la voce è ritornata e senza troppo discutere sono stata pronta ad assumere su di me il fardello di un destino mancato.

A casa, la sera, ho iniziato a cantare dietro i miei numerosi CD di opera. Mi erano sempre piaciute le romanze, ma non avevo mai pensato potesse essere roba per me. In ogni caso, non funzionava come speravo: non riuscivo a tenere frasi lunghe, la voce mi si stremava e usciva fioca, senza smalto. Negli acuti, poi, o restavo muta o emettevo una sorta di raglio. Mia figlia era molto critica e andava a chiudersi in camera a fare i compiti. Però ogni tanto la imbroccavo e mi usciva una voce piena e scura, che non mi sembrava niente male. Non sapevo cosa pensare. Più mi ostinavo, più mi sfiatavo. Una mattina, passando in fretta da una via, ho sentito uscire da una finestra le note di un duetto dal vivo in cui erano impegnati un soprano e un tenore. Ho individuato il portone e dopo una settimana di tentazioni e ripensamenti, sono tornata sul posto per indagare. Mi ci voleva un maestro e lo avrei trovato. Ho avuto il suo nome dalla signora del pianterreno; l'ho chiamato a casa e ho fissato un appuntamento. Ero decisa a conoscere anche solo un'ombra di quel che avevo perso.

Mi è venuto ad aprire un uomo di statura media, dai capelli lunghi brizzolati. Aveva un'aria molto disinvolta e mondana, e un sorriso sciocco che mi ha innervosito immediatamente. L'ho seguito lungo un corridoio buio fino a uno studio sovraccarico di libri e carte. Un piano a coda occupava metà della stanza. Ho detto che volevo imparare a cantare, che volevo sapere da lui se ne sarebbe valsa la pena. Mi ha chiesto di eseguire Vissi d'arte. Mi sono schermita. Non avevo con me le parole, non ricordavo testo e musica perfettamente. Lui ha iniziato a cantarla a squarciagola. La sua voce mi è sembrata sguaiata e arrogante. Ha cantato due strofe, a vocali aperte e di petto. Cantando, spostava un braccio davanti a sé da destra a sinistra e viceversa. Si è fermato, ha smesso di remigare e con lo stesso sorriso vacuo mi ha guardato dritto negli occhi. Toccava a me. Ho preso a cantare in falsetto. Mi è sembrato di essermela cavata onorevolmente. Mi ha chiesto di riprovare. Alla fine mi ha detto che se quella era la mia voce, francamente non c'era che cosa educare. Dovevo tirare fuori la grinta. O mi decidevo a cantare o non cantavo. Il problema, ha precisato, non stava nella voce ma in qualcos'altro. L'ho salutato senza replicare. Ho sceso le scale furiosamente, decisa a metterci una pietra sopra.

Ero offesa con quell'uomo, lo odiavo. Avevo pensato che un insegnante di canto mi avrebbe preso da lontano, magari facendomi incominciare con dei vocalizzi semplici, tanto per farsi un'idea delle mie potenzialità. Non mi ero aspettata un tête à tête così sfacciato. Vissi d'arte, m'aveva chiesto di fare, così su due piedi! Vissi d'arte a un contralto! Per giorni e giorni ho rimuginato con rabbia su quel sorriso sciocco e quella voce sguaiata. Il problema non era la voce, ma qualcos'altro, aveva detto un po' beffardo. Forse non sapeva come dirmi che ero troppo vecchia per cantare.

Per un po' non ho più ascoltato musica, poi – si sa – la passione non è acqua e alla fine ho ritirato fuori Callas, Tebaldi, Caballé, Bartoli, Simionato. Alla faccia del maestro. Dopo qualche giorno di prove e di ascolto, mi sono seduta sulla poltrona davanti al camino spento e guardando i ceppi inutili ho ammesso che senza un po' d'acqua o un po' di fuoco non avrei potuto fare né germogliare né bruciare il mio legno, che sarei rimasta lì per sempre in attesa. Ho incominciato a cantare senza ascoltarmi da fuori, lasciando che la voce fluisse libera. Ho cercato di rilassarmi e di non pensare a estetizzare il suono. Era chiaro: avevo un pregiudizio: non volevo tirar fuori la voce, avevo paura di urlare. Restavo educatamente al di qua del silenzio, come se penetrare lo spazio con la voce fosse una volgarità. Per educare il "forte" dovevo accettare in primo luogo di liberare la voce e correre anche il rischio di offendere le mie stesse orecchie. Era questo che il maestro aveva voluto dire?

Ho trovato un'altra insegnante di canto. Franca aveva l'età di mia madre e come lei portava in sé una forza e una giovinezza trascinanti. Aveva un piccolo corpo magro e vestiva come una sessantottina. Il viso e le mani sempre abbronzati per il lavoro nel giardino, viveva in una vallata edenica in un vecchio granaio riattato; tre volte madre, nonna di non so quanti nipotini, moglie di un uomo che poteva esserle figlio. Mi ha accolto nel suo salottino circondata da cani e gatti e piantine. Alle pareti, qualche ricordo della carriera brillante e brevissima, smessa per compiacere un marito geloso che la lasciò quando non ci furono più altri sacrifici da chiederle. Abbiamo iniziato da subito registrando le lezioni, i vocalizzi, le spiegazioni. Dovevo imparare tutto, come prendere fiato, come tenerlo alto a fontanella, dove dirigerlo, come appoggiarlo in maschera. Ero rigida, sfiatata, già piena di vizi. Franca mi ha portato passo passo a sbloccare la voce, a infilare un vocalizzo, a scoprire il mio corpo, i suoi canali interni, le vie vere e immaginarie in cui indirizzare il suono. Ho scoperto pareti, ostacoli, ossa, cavità, flussi, polpe, energie insospettate, riferimenti forse immateriali ma utili a imbastire una impalcatura sonora, una macchina vocale. Era iniziata una via di esaltazione e tormento: quando trovavo un punto ne perdevo un altro, quando capivo una cosa ne disimparavo un'altra, quando azzeccavo una sequenza, mi si spostava un appoggio. Una scuola di emozioni e disciplina in mezzo alla campagna prima brulla poi in fiore, fino a che il mio lavoro mi ha allontanato dall'Italia e ho dovuto lasciare Franca e il suo paradiso.

Un anno di silenzio. La voce di nuovo sepolta dentro di me. Mi ammalo di tiroidite. Quasi che la mutezza mi si volesse rivoltare contro. Torno in Italia, scopro che la mia consulente bancaria canta in un coro, le strappo il nome di un'insegnante di canto che riceve in città. Provo a chiamarla. Le spiego al telefono che non sono più una ragazza, che vorrei prendere lezioni ma solo a condizione di lavorare sul serio, di non perdere tempo. Certo, sarebbe stata lei a dire se si poteva fare. Fernanda sembrava uscita da un quadro del Botticelli, bionda e morbida, proprio con il corpo materno e abbondante che per me deve avere una cantante lirica. La prima volta mi ha guardato seriamente, tenendomi un po' alla larga, mi ha sentito la voce con qualche vocalizzo leggero e poco esteso. Alla fine, con una luce da monella negli occhi, mi ha detto che mi avrebbe preso. Sì, avevo una bella voce, ero intonata, ma mi avrebbe fatto lavorare come un'aspirante professionista. Nessun sconto per l'età avanzata. O così o niente.

Andare a lezione di canto significa passare mesi e mesi senza cantare veramente, attraversare fasi alterne in cui cadi a precipizio da insperate vette e rinasci a sorpresa dalle tue stesse ceneri, significa accettare che qualunque cosa, sia fisica che psichica che contingente, possa influire sulla tua postura corporea e da lì influenzare l'emissione vocale. Significa affinare l'ascolto di te stesso, l'intelligenza corporale, l'immaginazione e la visualizzazione; significa che ti fai via via strumento, macchina, organismo, impalcatura, bestia, cristallo, acciaio, velo, giunco, quercia e quant'altro il tuo corpo-mente riesca a concepire e a autorappresentare. Sono diventata geologo, contadino, giardiniere, muratore, falegname, architetto, ingegnere, medico e ammaestratore di me stessa. E percorro il mio corpo come una landa fantastica, come una costruzione alla Tinguély, attivando o aggiungendo pezzi, stringendo bulloni, aprendo pertugi, scavando gallerie e canali, rafforzando e alleggerendo, in un sistema di vasi comunicanti, di connessioni e percorsi sempre più raffinati e più chiari. Ogni volta le mie cellule pullulano ognuna con una frequenza diversa e ogni volta devo riordinare, sedare, dirigere, calcolare, semplificare, distinguere, scartare, esaltare. Trasformarmi in una voce. Nanda mi tasta, mi appoggia, mi spinge, mi indica dove vibrare, gioca con le mie immagini, insieme costruiamo paesaggi fisico-vocali, scenari surreali dove il mio corpo s'innesta di ogni cosa e l'intero mio essere diventa un ibrido stupendamente mostruoso. Oggi ho la corazza, domani sarò liquida, ieri ero cavallo in dressage, o fontana, o libellula, o mantice o caverna o nuvola o albero o pura luce o croce.

E non sempre l'opera riesce. Spesso mi stremo sul più bello o dissipo il centro dell'impianto astutamente costruito, l'organismo si sregola e frammenta in mille pezzi, perdendo l'unità e la sinergia delle parti. Un angolo si sfuoca, un altro si specializza in eccesso, smarrisce la connessione col resto, non collabora, si separa in un isolamento acuto e tirannico, condanna al torpore l'intero sistema. Una percezione più forte di un'altra, un dolore o calore sopra gli altri può dirottare l'energia su un binario morto, su un canale bloccato, su un osso muto e sordo, su una cavità cieca. E tutto s'ingolfa, s'inventra, si chiude e gargarizza, o svolazza troppo libero o piatto, senza profondità, rotondità, risonanza. Questo è il mio lavoro pazzesco, il cantiere in cui preparo la spontaneità futura del mio canto. Lo sanno i poeti quanta arte, quanto sacrificio siano necessari per un effetto di semplicità!

Ma quando funziona, allora tutto diventa facile e leggero come in un sogno felice; bassi e alti, agile e lento, forte e piano si liberano dalla materia e si susseguono con la naturalezza di un'acqua che assecondi un paesaggio mutevole. Allora mi ritiro e mi acumino nella sola voce, mi trasferisco in una bolla di sapone agile nell'aria, di cui moltiplico evoluzioni e iridescenze, sollecitamente badando ad accompagnarla verso l'inevitabile fine nel rispetto dei suoi tempi e della sua natura. Talvolta, però, la piena emotiva è tale che non riesco a risolverla in cristallina bellezza, la voce mi si gonfia in pianto e si spezza. Ci sono alcuni punti dove inevitabilmente l'inesperienza mi frega, gli occhi mi si riempiono di lacrime e faccio silenzio, sovrastata dall'arte del librettista e dalla malìa della musica, come in un po' per celia, un po' per non morire della Butterfly o nel babbo, pietà, pietà del Gianni Schicchi. Per non parlare delle due estasi, quella domestica di Mimì - Ma quando vien lo sgelo, il primo sole è mio, il primo bacio dell'aprile è mio! – e quella sublime dell'Isotta morente: In dem wogenden Schwall, in dem tönenden Schall, in des Welt-Atems wehendem All – ertrinken, versinken, unbewußt… höchste Lust! In questa placida onda, in quest'eco risonante, nel respiro del mondo annegare… perdersi… ignara… gioia suprema! – vaneggia Birgit Nilsson ed io con lei.

Ogni volta è come la prima volta e non c'è niente di certo, ogni canto è nuovo e irripetibile e prende il colore del momento. Questa è la mia follia quotidiana, cui affido via via il compito di decantare il giorno, trasferendo nella voce le qualità della contingenza. Ogni volta irripetibile, il canto, come la vita stessa, si spiega disuguale, triste o esaltato, frustrante o splendido. Freunde! Seht! Fühlt und seht ihr's nicht? Amici! Vedete? Non sentite? Hör' ich nur diese Weise… Solo io odo questa melodia che così meravigliosa e dolce sale come un lamento tutto dicendo, teneramente placando, e risuonando intorno a me? Sono onde d'aria lieve che fluttuano intorno a me, risuonando più chiare. Sono nubi di dolce profumo… come vibrano e fremono!



Una nota su Paola Polito è in CARTE ALLINEATE in TRE POESIE CON LE ROSE, 25-1-07. LA VOCE, segnalato dalla giuria al III Premio letterario online PAROLA DI DONNA (2003) e al premio IL PRIONE (2004), è stato pubblicato nei RACCONTI DEL PRIONE, La Spezia, Giacché, 2004, pp. 189-94.