LETTERA DI DIANE ARBUS A UN AMICO (1970).
Caro Arthur,
non c’è niente di credibile, in quello che vedi, niente di preciso o di definitivo. Solo se lo fotografi cominci a vederlo. io, semplicemente, volevo osservare con maggiore attenzione le persone che la gente evita di vedere. Volevo che si fermassero davanti all’obiettivo con calma, per essere fotografati da me. Volevo che accadesse come in Freaks di Browning, dove le persone normali appaiono mostruose e i mostri, invece, sono persone vive e reali, capaci di sentimenti belli e di passioni delicate. Volevo renderli visibili, familiarizzarmi con i loro corpi e i loro pensieri. Ricordo un telefilm, dei medici operano una donna (non si vedono le facce dei medici e delle infermiere, sono sempre in penombra), la donna ha la testa bendata, le dicono: è l’ultima operazione, se non riusciremo a rendere normale la tua faccia sarai perduta, ti confineremo in un ghetto, quando la donna viene operata e sbendata, appare agli occhi dello spettatore e il suo volto è bellissimo, le facce di tutti gli altri sono scimmiesche, porcine. Ma tutti hanno quelle facce. Lei è sola con la sua. Essere mostri è essere soli con un certo viso, il proprio, bello, brutto o strano che sia. Io ho voluto che apparisse questa solitudine. È superba e mozzafiato, come quando strisci sul ventre, in mezzo alla terra fangosa, e non sai se sarà il nemico a colpire te o tu a colpire lui, alla cieca, nel buio.
Vedi, è solo accidentalmente che sono nata normale, e me ne dispiace. È dolorosa, dentro di me, la sensazione di essere immune da avversità violente, da deformazioni irrimediabili. Io e te, Arthur, non vedremo mai la stessa cosa. Mi accusano di essere «la fotografa dei mostri» ma non sanno fino a che punto si ingannano. Non sanno, loro, i normali, fino a che punto hanno cancellato dai loro corpi la persona, diabolica, terribile o straordinaria, che avrebbero potuto essere, e così si sono castrati, perché era conveniente castrarsi per consegnare alla società una sola immagine di sé - di solito quella vile, consenziente, complice. Quando io fotografo un essere deforme, leggo nei suoi occhi il desiderio di non esserlo e l’angoscia di esserlo, la sua mite insoddisfazione ma anche la sua calma cerimoniosa, il suo vivere, come un’abitudine di tutti i giorni, quel qualcosa di strano che, davanti al mio obiettivo, non è qualcosa di cui deve vergognarsi o nascondersi.
Niente è più nobile del gigante che si china verso i suoi piccoli genitori, della sua grande tenerezza, del desiderio di non essere la cosa enorme che è ma il bambino di statura normale che non è mai stato. Vedo il suo aspetto reale e decifro il suo desiderio reale. Solo guardandolo e scattando la foto. Facendo questo io entro in punta di piedi dentro un mondo sacro, dove sono ammessa ad entrare. Vedo solo figure di idioti, di nani, di esseri strani. Li metto frontali, davanti a me, senza descrivere nessuna storia, senza mostrare nessun dramma. Non è questione di freddezza emotiva ma di assoluta mancanza d’ipocrisia. Credo che, nel mondo, ci sia ben poco d’altro da vedere. I freaks non trovano i loro traumi, nascono con i loro traumi. Superano immediatamente tutti gli esami. Sono aristocratici e innocenti, così vicino al ritmo animale del vivente. Spesso sorridono. Anche nella natura ci sono dei tronchi d’albero dall’aspetto raccapricciante che nessun viaggiatore oserebbe definire anormali rispetto a tronchi armoniosi e rispettabili. Sarebbe anche interessante confrontare le mie foto con le foto di qualche matrimonio della provincia americana del New Yersey, la sposa grassa e ridente, l’uomo untuoso e stolido, e sfidare lo spettatore a confessare cosa sente e cosa non sente mostruoso.
Noi troppo spesso abbiamo paura del nostro corpo, lo vogliamo truccare come attori, ringiovanirlo, trasformarlo, renderlo piacevole. Io, invece, parlo della serenità di chi, avendo corpo e faccia anomali, li sopporta nonostante il disprezzo o il disgusto degli altri. Le mia foto espongono un destino, non lo nascondono dentro un armadio, non lo seppelliscono sottoterra, non lo mettono sotto un velo. Io voglio dire: chi ha la maschera è solo chi guarda, mentre chi viene guardato si assume il compito opposto: non fingere, non simulare. Lasciarsi attraversare.
Sono umili, nobili, solenni, i freaks. Molti di loro si sono rifiutati di farsi fotografare non perché avessero paura ma perché non ritenevano il mio lavoro necessario. Altri, invece, hanno accondisceso con semplicità. Tutto è possibile, con loro. E, quando rientro nel mio mondo, non mi sento affatto bene. Mi sembra di tradirli. Anche se fisicamente sono più simile a voi che a loro, ho un senso di colpa per non essere rimasta laggiù, dove, chissà, qualcuno poteva, per scherzo, togliermi la macchina di mano e fotografare me, almeno per un attimo.
Adesso, dentro alla mia tristezza, non vedo che loro. Nessun altro. Voi normali mi pesate sulla pancia, mi fate soffrire. Loro, invece, mi aiutano a essere umana per il tempo in cui lo vorrò.
Diane