Le nostre armi spezzate sul fondo marino
qualcuno verrà a prenderle per il museo.
Siamo qui tranquilli ci guardano i pesci
passando in branchi ci guarda tutto il mare
ma forse non è così. Qui nessuno ha occhi
e non c’è altro sguardo del nostro senza orbite
che non vede perdita né conquista
non vede questa calma supina
nel porto franco sotto l’orizzonte.
È questo l’aldilà?
Un velo che ci separa da chi va eretto
e in questo letto liquido solo di notte entra
e al mattino lo strappa per indossare
la solida maschera dei vivi.
Esonerati. Esonerati dal pensare
quello che per la mente non è pensabile
e comprendere ciò che non si può.
La vita insegna controtempo sembra
cambiarci ma solo in superficie: brezza
che increspa il mare per chi ancora lo guarda
dall’alto guarda le mappe delle città
e le loro rovine.
Noi non abbiamo imparato nulla
che la placenta già non sapesse
dove ha scritto i dolori gli inizi le strade.
Qui dovremmo tenerci le ossa strette ai ricordi
alle ottuse parole del mare
con fiamme sottopelle e rive grigie.
Questo è porto franco e la terra
non possiamo toccarla. Non la tocchiamo
come voi capovolti, dall’altra parte.
Ma ne parliamo con l’acqua entrata in gola
che turba il suono alterando la voce
continuando a tradirvi parlando e parlando
e forse è questa la meraviglia
dei silenzi nelle stanze dei bisbigli del vento.
Siamo tornati? Da dove? Da una guerra lontana?
O mai partiti: abbiamo inseguito
la scia delle navi le loro favole
profili di folli e di nuvole
di chi prima e dopo
non saprà dirci nulla di nessun viaggio.
Ora siamo adeguati al mare.
Voi ancora guardate i riflessi
chiedendo un senso.
Ma se passate sotto questo sipario
non si vedranno inferno o paradiso
c’è quello che già sapete.
Noi siamo scorticati.
Siamo il mare
che non ha pelle siamo
ciò che volete
fate pure scommesse giocando
con le vostre maschere a nascondere
il nascosto a rivelare
l’evidente.
Le mareggiate mescolano
acque e mercanzie le sabbie
accumulate e sciolte fioriscono
in detriti dove si legge
quello che furono la vita e i sogni.
Qualcosa resta, allora? Qualche segno
schegge d’ossa mescolate a conchiglie
a ruggine di vecchi scafi un luogo
vago e libero - mostruoso.
Qui c’è la musica per ricoprire
di dolci suoni il fango nero del fondo
ansia e tremore sibilano melodie sorde
alla rabbia e al dolore
che restano a fluttuare sopra di noi.
Si può morire in tanti modi. Noi che siamo
qui per troppo amore della vita
cocciuti di sogni e fragili nei dolori
noi ritornati nel grembo materno
pesci gonfi di latte salato
immaginiamo un modo diverso
di morire non piano non mollemente
non sempre pensando a qualcosa o qualcuno
ma esplosi fuori dalla vita espulsi
con un atto di energia che cancella tutto:
è quando nascono creature nuove
e infine appare un mondo non umano.
Il rimpianto è questo strano ritardo: non ancora
pietre non più animali dèi uomini - che cosa?
Lucetta Frisa è nata a Genova. Tra le sue raccolte di poesia: I MITI, LE LEGGENDE, Padova, Rebellato, 1970; RITMI DEL FILO, Genova, Il Torchio, 1982; LA COSTRUZIONE DEL FREDDO, Salerno, Ripostes, 1990; MODELLANDOSI VOCE, Milano, Corpo 10, 1991; LA FOLLIA DEI MORTI, Pasian di Prato (Udine), Campanotto, 1993; NOTTE ALTA, Castel Maggiore (Bologna), Book, 1997; GIOIA PICCOLA, Carbonera (Treviso), All'antico mercato saraceno, 1999; L'ALTRA, Lecce, Manni, 2001; SIAMO APPENA FIGURE, Civitanova Marche (Macerata), Gruppo editoriale Marche, 2003; DISARMARE LA TRISTEZZA, Olgiate Comasco (Como), Dialogolibri, 2003.
Il testo qui riprodotto col consenso dell'autrice è tratto dalle pp. 42-45 dell'ultimo volume pubblicato, SE FOSSIMO IMMORTALI, con postfazione di Mauro Ferrari, Novi Ligure (AL), Joker, 2006, opera in cui si articolano vari motivi, tra i quali il catalogo del mondo, la relazione tra il soggetto e gli oggetti ("Noi / e l'universo delle cose", nel testo che dà il titolo alla raccolta, p. 27), la ricerca di "quello che unisce e non separa" (COME FANNO I PAZZI, p. 31), il rapporto tra sogno e veglia e tra la dimensione dei viventi e l'oltreterra: "Ogni mattina ho il compito di rifare il mondo. / Ripeto ciò che gli dèi fanno con gli uomini / dopo la notte, li rigirano al rovescio / li sbattono nell'aria fredda li scrollano / dei sogni per prepararli all'altra vita" (QUINTO AUTORITRATTO DIURNO, p. 57). Quest'ultimo tema è in rilievo in PORTO FRANCO, spostato nell'immersione equorea e in corrispondenza del contrasto tra giorno e notte. È la mattina, al risveglio, che si indossano le maschere per arginare una piena coscienza di sé. Si discende nel porto franco sepolto nel mare per trovare l'identità profonda e autentica, personale e collettiva. Una poesia di partecipazione emotiva e linguistica, enigmatica e non univoca, dai significati molteplici e aperti.
[Roberto Bertoni]