[Urban landscape (La Spezia 2018). Foto Rb]
Roberto Bugliani, Serraglio Italia. Cosenza,
Santelli, 2018
L'ultimo libro di racconti di Roberto Bugliani è al contempo sperimentale e realista, si occupa di temi sociali e presenta
elementi di gioco letterario e intertestualità. Scorrevole e di impegno, fornisce
un quadro di aspetti dell’Italia contemporanea e del mondo globalizzato. L’autoconsapevolezza
dell’autore è elevata; ed è per questo che lasciamo a lui, nell’intervista
sottostante, la parola per descrivere la propria poetica. L’autore ha inoltre
consentito la pubblicazione su Carte Allineate di uno dei racconti di modalità
fantastica, “La mano”. Restando nei limiti di numero di parole permesse a
Carte, pubblichiamo una parte del racconto in questo numero, alla fine dell’intervista,
e riserviamo la parte rimanente al prossimo numero
[Roberto Bertoni]
INTERVISTA
1.
Dal punto di vista dell’autore, di cosa
parla questo libro e perché l’ha scritto?
Il libro, Serraglio
Italia, è la mia seconda raccolta di racconti. Si tratta di venti “pezzi” a
tematiche varie, anche se gli argomenti affrontati nei singoli racconti hanno
complessivamente a che fare con la condizione umana del tempo che ci è toccato
vivere. Perciò a calcare la scena narrativa sono temi quali la precarietà del
lavoro e la sua perdita, la globalizzazione, la strategia della tensione, l’emigrazione,
il terrorismo, la cooperazione umanitaria, naturalmente colti da angolazioni
particolari e, direi, sostanzialmente anomale, che rovesciano i punti di vista
usuali. Ci sono poi tutta una serie di racconti legati alla quotidianità, in
cui ho inteso rappresentare personaggi comuni colti in momenti particolari
delle loro peripezie esistenziali, di natura talvolta tragica, talvolta comica.
A complemento di tutto ciò ho posto racconti allegorici come La Volpe e il
Gatto; Così parlò Paperino, oppure ambientati in luoghi lontani come la
selva amazzonica di Puerto Misahuallí, o ancora che si “risolvono” nel
surreale, una specie di horror soft, come in La mano. Infine c’è
l’amore, l’amore nelle sue diverse forme e modi, ma in ogni caso si tratta d’amori
tristi, sconfitti, perché, come scrisse tempo fa Denis de Rougemont, in
letteratura l’amore felice non ha storia.
Ho scritto questo
libro, che raccoglie racconti composti grosso modo negli ultimi quindici anni,
perché ho voluto sperimentare le varie possibilità stilistiche e formali che
offre la forma-racconto. E la misura breve propria del racconto mi ha costretto
a misurarmi con la scrittura in modo ben diverso da quanto sono solito fare nei
romanzi; insomma, qui ho fatto propria l’arte letteraria del “levare”, mentre
nel romanzo ho sempre praticato quella dell’”aggiungere”.
2.
Alcuni racconti sono a sfondo sociale e
altri più intrinsecamente intertestuali o letterari in senso stretto. Come si
integrano queste dimensioni nella Sua poetica?
L’alternanza di
testi che affrontano problematiche sociali con altri “intrinsecamente
intertestuali” è dovuta alla mia indole, per dir così, che mi spinge a
sperimentare le varie possibilità formali e stilistiche insite nel racconto. Ma
oltre a questa alternanza, ho cercato anche di condensare in un unico testo
queste due tendenze narrative. Faccio un esempio. Nel racconto Un bel
cazzotto in testa parlo d’un anziano pensionato arrabbiato col mondo e ne
descrivo una giornata, insieme banale e speciale perché sarà quella della sua
morte, e alterno brani narrativi a brani di riflessione teorica di stampo
saggistico sulla “scomparsa della fabbrica fordista”. Insomma, ho cercato di
rappresentare, giocando anche sulla contrapposizione, l’irruzione della storia
sociale, in questo caso raffigurata nella trasformazione tardo-novecentesca del
modo di produzione e dell’organizzazione del lavoro, nelle vicende biografiche
d’un soggetto qualsiasi, un pensionato che, come la fabbrica fordista, non fa
più parte del ciclo produttivo. Anche nel romanzo che ho appena terminato
compare questo doppio binario, per dir così, della narrazione, che da un lato
porta avanti la trama nel modo convenzionale, e dall’altro opera una serie di
digressioni che imprimono alla narrazione un moto a spirale, anche sul piano
cronologico. Sarà perché sono ancora influenzato dalla lettura - tarda, avrei
dovuto farla prima - del Tristram Shandy di Sterne, ma ritengo che la
digressione sia il sale della letteratura.
3.
In Suoi testi precedenti, c’era un peso
forse superiore dello sperimentalismo derivante dalla neoavanguardia. È quella
un’esperienza ancora valida secondo Lei oggi?
La neoavanguardia
e lo sperimentalismo in genere hanno marcato anche pesantemente le mie prime
scritture, sia in poesia che in prosa. Poi, con i libri successivi, ho
sviluppato una scrittura più “lineare”, ma tracce di sperimentalismo sono
ancora evidenti nei miei testi.
Al netto di certe
mie sperimentazioni, diciamo, gratuite, condotte all’insegna dell’entusiasmo
più sfrenato per ogni testo che la neoavanguardia sfornava, direi che quell’esperienza
per me è ancora valida e condiziona un certo aspetto, oggi secondario, del mio
stile. Anche nella mia poesia la situazione è simile.
Voglio però
aggiungere che, nell’odierno panorama editoriale, gli sperimentalismi sono
divenuti rarissimi. I tempi sono cambiati, per dire con Palazzeschi, e oggi la
“bella prosa”, ripulita da tracce e scorie sperimentali e immediatamente
fruibile, è egemone. Ma la scrittura immediatamente fruibile, quella levigata,
che fa a meno di mediazioni culturali e d’asperità semantiche, è anche
immediatamente dimenticabile. Infatti molta letteratura contemporanea è del
tutto priva di memorabilità.
4.
Cosa
pensa del rapporto tra narrativa e realtà?
Nessun argomento
letterario è stato più dibattuto di questo. A livello teorico il secolo scorso
ha dato importantissimi contributi a questo proposito. Penso allo studio, per
certi versi ancora centrale, di Erich Auerbach, Mimesis. So di essere
banale, ma per me il nodo che ogni testo letterario si trova ogni volta a dover
sciogliere (o a ingarbugliare, a suo piacimento) è il verosimile. È
facendo i conti non già con la realtà bensì col verosimile che il romanziere
riesce a scrivere qualcosa di credibile, anche se parla di società utopiche, di
futuri distopici o quant’altro. La credibilità del testo, questo conta. E per
un testo la credibilità è condizione indispensabile per poter catturare il
lettore nella sua rete, sia essa realista o fantastica, per circuirlo, per
affascinarlo, per farlo piangere o ridere, a seconda dei casi.
5. Chi è il Suo lettore ideale?
Un lettore
inesistente, una sorta di alter ego della mia voce narrante, una persona non in
carne e ossa ma di carta, o di byte per essere al passo coi tempi, che ha in sé
l’esperienza formale e storica della letteratura che amo e con cui cerco di
dialogare. Ma sono altresì consapevole che si scrive per lettori reali, lettori
che lo scrittore non conosce a priori, e forse nemmeno a posteriori, per cui
allo scrittore viene da immaginarseli, i suoi lettori, e magari da
idealizzarli, cosicché il serpente si morde la coda e il ciclo ricomincia.
Roberto Bugliani, LA MANO (racconto, prima
parte)
Fu
soltanto quando si recò al Museo D’Orsay di Parigi per la seconda volta a
rivedere Les deux fillettes dipinte
da Vincent Van Gogh come s’era ripromesso subendo il fascino misterioso del quadro,
che notò il particolare inquietante della mano. Quella mano, la mano sinistra
della bambina in primo piano, in prospettiva la più vicina all’osservatore,
stretta, meglio: avvinghiata, ecco, proprio così, avvinghiata alla mano della seconda bambina. Era una mano
eccessiva, sbilanciata, all’apparenza del tutto fuori luogo se proprio quel
dettaglio non conferisse al ritratto innocente di due bambine perfettamente
simmetriche nell’abbigliamento e nelle fattezze, la cuffietta candida e
immacolata sulla testa e il vestitino celeste da scolarette nella campagna
vagamente olandese di Auvers-sur-Oise, il luogo che gli spettava nella
geografia cavernosa dell’animo umano. Una mano ferocemente avida nella sua
volontà d’impossessarsi della mano abbandonata in grembo della seconda bambina
che soggiaceva alla sopraffazione dell’Altra, patendone il dominio. Da quella
mano sinistra si diramava la crudeltà
originaria che colmava lo sguardo da megera della prima bambina d’uno
spaventevole epos. Da comune elemento raffigurativo, il dettaglio della mano s’era
dilatato smisuratamente, fino a colonizzare del proprio senso estremo l’intero
dipinto.
Nessun
altro quadro del pittore fiammingo gli appariva parimenti terrificante. Il
genio visionario di Van Gogh aveva trasformato un viso innocente nella
quintessenza della malvagità, stravolgendo le rigorose leggi fisiche che
organizzano l’ordine formale del mondo. E la mano era stata il grimaldello che
aveva scardinato la porta blindata della coscienza, sospingendo lo sguardo dello
spettatore sul baratro dell’abiezione e rendendolo partecipe della
scelleratezza dell’oppressione allo stato puro. Questo anfitrione della
percezione tardo-moderna aveva imprigionato sulla tela delle Deux fillettes la materialità dell’inconscio,
precedendo d’almeno dieci anni i primi vagiti freudiani.
Quando
era entrato la prima volta al Museo d’Orsay, l’ascesa all’Inferno era stata
graduale. All’inizio aveva indugiato davanti all’Origine du monde di Courbet a inalarne gli effluvi umorali, quindi
aveva voltato a destra e, scendendo i pochi gradini, s’era introdotto nella
prima sala del pianterreno, bighellonando un po’ annoiato tra le tele di
Daumier, Millet e Corot. Lì aveva assaporato oziosamente i toni ocra, rosa
arancio e blu chiaro delle cuffie delle contadine prima di risolversi ad
attraversare l’atrio gremito di statue senz’anima fredde più del loro marmo e
infilarsi nella sala di fronte, dove venne prontamente respinto dalla languida
retorica delle Veneri imperiali e dalla grazia stucchevole dello sciame immoto
di fanciulle borghesi immortalate nel loro corredo di sete, crioline e mussole
bianche.
Salendo
al piano superiore, aveva gustato masticandoli piano i giochi di luce sulla
cattedrale di Rouen di Claude Monet, poi aveva accennato a qualche passo di
danza invitato dal ballo di Renoir non senza indugiare in cerca d’orientamento
lungo le strade pissarriane di Ennery e di Voisins, mentre un soffio gelido gli
aveva corso la schiena dinanzi al paesaggio innevato di Sisley. Infine aveva
sbadigliato assieme alle stiratrici di Degas e s’era messo a interrogare la
malinconia del viso della bevitrice d’assenzio accoccolata a fianco a loro.
Infastidito dalla voce burbera del maestro della scuola di ballo, s’era provato
a sbirciare senza successo tra le carte dei giocatori di Cézanne, quindi il
chiacchiericcio insipiente dei bagnanti vicini lo aveva distratto,
sospingendolo verso il severo cipiglio della donna con caffettiera. Ma non
riuscendo a percepire alcun aroma di caffè, aveva seguitato col suo passo ciondolante
da perdigiorno che lo condusse in una sala all’apparenza uguale alle altre.
All’improvviso il cuore si mise a battere
celermente e il ritmo del suo andare curioso si scompigliò in una serie di
passetti esitanti e disorientati, quasi non ritrovasse più la strada nell’infilata
di sale spaziose e solari. Cercando di capire la ragione di quel brusco
soprassalto dell’umore si guardò attorno e lo sguardo fu attratto dai gialli
eccessivi di ritratti senza decorazioni né prospettiva prima di scivolare sull’inclinazione
impossibile d’una camera sconsolatamente semplice e di scoprirsi avvolto come
in una ragnatela dal blu intenso del cielo appiattito che gravava col suo peso
eterno sull’edificio violetto della chiesa d’Auvers. Così, a quarant’anni suonati,
si trovò, senza altra mediazione che uno stupore idiota, faccia a faccia con
Van Gogh.
La
tavola a cui il suo sguardo da naufrago s’aggrappò per non venire inghiottito
dai flutti burrascosi di linee e colori, fu ancora più funesta che se non si
fosse abbandonato inerme a quel mare ringhioso. E a confronto colle Deux Fillettes discoste e silenti in un
angolo della sala non c’era Renoir, non c’era Gauguin, non c’era Monet, non c’era
Degas, non c’era Manet, non c’era Pissarro che ne valessero una pennellata.
Tutti i maestri del secondo Ottocento s’erano mummificati, larve rinsecchite,
sotto il sole allo zenit dell’entelechia Van Gogh.
Dinanzi
a quel capolavoro della pittura universale sostò impietrito a gambe larghe a
sostenere le ondate di dolore e di perfidia che si fransero sul suo petto
oppresso con un fragore che solo lui udiva, e la nozione del tempo si smarrì in
un labirinto di squilibri immobili. Non poté dire quanti minuti, quante ore o
quanti giorni trascorse ipnotizzato davanti al quadro, né in quale avatar lo
trascinasse la corrente impetuosa di sconcerti e turbamenti. Soltanto quando un
giapponese corpulento e sbadato lo urtò facendogli quasi perdere l’equilibrio
si riscosse dal suo vaneggiamento. Accolse le scuse di quello con una faccia da
sonnambulo cronico e uno sguardo assente che provocarono un sorriso di
perplessità nel turista giapponese.
Infilando
un passo da ubriaco dopo l’altro, con le gambe ancora impastoiate nel groviglio
materico dell’immagine mostruosa, riuscì finalmente ad allontanarsi dalla sala
e a guadagnare a fatica l’uscita senza che il suo sguardo smarrito cercasse
orientamento o protezione in altri quadri.
Le
allucinazioni e le crisi che avevano segnato nel profondo la vita del pittore s’erano
materializzate sulla tela delle Deux
fillettes, concentrandosi sul viso della prima bambina. Ma nella tela c’era
molto di più della rappresentazione d’un delirio. Proprio lavorando su un
soggetto modesto e ordinario l’artista aveva conseguito la percezione assoluta
dell’animo umano: empietà, efferatezza, crudeltà, l’intera panoplia dei
sentimenti malvagi, delle passioni perverse, dei peccati più inconfessabili v’era
racchiusa, e la mano aggallava dalla tela come una condanna implacabile che lo
risucchiava nel vortice della dissipazione entropica, mandando in frantumi l’ordine
chiuso delle azioni e dei giorni che regolava la vita degli uomini.
[Continua sul prossimo numero di Carte
Allineate]