13/09/18

Elisabetta Ragonesi, LA SEPARAZIONE COME RICERCA IDENTITARIA NELL’OPERA DI CARLA CERATI



 [Separation of land and sea (Tino 2018). Foto Rb]


Prima ancora che come scrittrice di romanzi Carla Cerati (1926-2016) si impone all’attenzione della critica e del pubblico per la sua attività di fotografa - iniziata “per caso o per magia”[1] nel 1960 e divenuta per almeno un decennio il suo mezzo espressivo privilegiato - al punto da essere annoverata tra le rare voci femminili autorevoli della fotografia italiana fra gli anni ’70 e ’80.  

Alla fotografia e alla narrativa, utilizzati parallelamente per un certo periodo, la scrittrice attribuisce ruoli distinti e complementari  (“la fotografia mi serve per documentare il presente, la parola per recuperare il passato”[2]), tuttavia la scrittura finisce alla lunga per avere il sopravvento poiché, a parere di Cerati, meglio si presta a sviscerare a fondo la dolorosa evoluzione del suo percorso di ricerca: “mi fa soffrire di più scrivere, e questo è uno dei motivi per cui, alla fine, diventa più importante che fotografare”.[3]

Nel trentennio che intercorre fra gli anni ’70 e il Duemila la produzione letteraria dell’autrice si configura come una grande ricerca narrativa riguardante un’unica (autobiografica) protagonista il cui universo viene raccontato di volta in volta da una prospettiva diversa, così da avere sotto gli occhi la storia sempre più completa di una donna. È come se la narratrice, prendendo in prestito gli accorgimenti tecnici dalla Cerati fotografa, mettesse a fuoco con ogni romanzo un particolare, aggiungendo un nuovo tassello a una costruzione in costante divenire: un work in progress dall’andamento “a spirale che dal primo [romanzo] dedicato all’infanzia e all’adolescenza, ci trasporta via via alle esperienze della vita adulta”.[4]

L’elemento chiave attorno al quale sembrano coagularsi le diverse storie è la necessità di elaborare la separazione da ogni relazione affettiva importante, di metabolizzare gli eventi e i rapporti interumani trascorsi trasformandoli in un patrimonio unico di ricordi su cui costruire il presente, ogni volta “disposti a giocarsi l’equilibrio raggiunto, la pace”.[5]

L’indagine retrospettiva effettuata da Cerati attraverso i numerosi personaggi femminili caratterizza il suo stile narrativo sia rispetto ai contenuti sia dal punto di vista della struttura e della tecnica linguistica: la memoria non è intesa dall’autrice quale “passiva rievocazione del passato, ma come dialettico contrappunto al presente”[6] e progressivo svelamento di una ‘verità’ personale alla quale le protagoniste dei romanzi cercano di arrivare per tentativi ed errori.

In una parabola letteraria che appare a posteriori come un grande metaracconto la scrittrice lega in modo indissolubile l’incessante tentativo di superamento del passato da parte delle donne rappresentate alla loro costruzione identitaria, completando romanzo dopo romanzo l’immagine di un’unica donna e approfondendone di volta in volta uno specifico legame sentimentale: in ogni opera ciascuna protagonista elabora la separazione da tutti coloro che costituiscono un importante riferimento nella sfera relazionale, allo scopo di realizzare un’identità libera da identificazioni e di trovare in se stessa le ragioni delle proprie scelte.

Il fratello, nel romanzo d’esordio Un amore fraterno (1973); il marito o i vari amanti, nella trilogia Una donna del nostro tempo[7]; la madre, nell’opera La cattiva figlia (1990); un giovane amico prematuramente scomparso, nel romanzo La perdita di Diego (1992); la migliore amica, ne L’amica della modellista (1996); il padre, infine, ne L’intruso (2004). Pur dedicando a ciascuna di queste figure un romanzo in particolare, Cerati le ripropone come personaggi minori in tutte le opere, mantenendo immutata la dinamica relazionale con la protagonista principale.

In Un amore fraterno (1973), la separazione dal fratello adorato, dovuta a una morte a lungo temuta e attesa, avviene soltanto quando la protagonista ha finalmente il coraggio di affrontare la dolorosa realtà della malattia e di coniugarla con l’immagine idealizzata del congiunto; quando l’amore incondizionato per il complice e compagno dei giochi d’infanzia viene a patti col profondo senso di pena suscitato da un uomo il cui destino è ormai irrimediabilmente segnato: “mi resi conto di come la morte, proprio nel suo essere irrimediabile, sia pietosa: ci costringe a una presa di coscienza che da principio può sembrare più atroce e che dà, invece, l’unica possibilità di ritrovarci”.[8]

All’interno della trilogia Una donna del nostro tempo[9] Cerati solleva la questione del divorzio come unico mezzo per liberare le protagoniste dei tre romanzi (Un matrimonio perfetto, La condizione sentimentale, Il sogno della bambina) da legami matrimoniali opprimenti che della famiglia di origine riproducono “lo stesso meccanismo: nessuna libertà, [...] nessun richiesta di complicità [...]; solo ostacoli e reprimende”.[10] Ambientate a Milano tra gli anni ’60 e ’70, quando il dibattito italiano sul divorzio era particolarmente acceso, le tre opere presentano numerosi tratti autobiografici e affrontano in modo trasversale il tema della separazione nell’ambito del rapporto uomo-donna, approfondendone le dinamiche psichiche: il divorzio, prima ancora che a istanze di tipo giuridico, rimanda a questioni di natura psicologica, essendo il suo principale nucleo problematico quello di spezzare un cordone ombelicale rispetto al quale le donne rappresentate faticano a contrapporre una reale e valida alternativa.

I personaggi femminili della triade, tutti accomunati dal bisogno di riscatto dalla condizione di dipendenza materiale e psicologica da un uomo, mostrano altresì, sebbene con gradi diversi di consapevolezza, un pari desiderio di riappropriarsi di una dimensione corporea perduta in anni di consacrazione alla sola funzione materna e di recuperare una piena corrispondenza fra le percezioni legate al corpo e i sentimenti che emanano dalla sfera psicoaffettiva.

In un altro romanzo autobiografico, La cattiva figlia (1990), la scrittrice utilizza il vissuto del rapporto con la propria madre per rielaborarlo e prenderne le distanze, riuscendo alfine a recuperare una visione più obiettiva dell’immagine materna e a rendersi conto di come molte delle sue convinzioni si basino su “avvenimenti deformati dalla società patriarcale in cui è cresciuta”[11]. La memoria del legame filiale, filtrata attraverso la propria personale storia di donna (e di madre) si trasforma in “un nuovo passato”,[12] prefigurando per lei un diverso futuro.

Con La perdita di Diego (1992), Cerati racconta per mezzo della fotoreporter Silvia la storia di un ragazzo, assistente fotografo della protagonista, che decide di togliersi la vita proprio all’interno dell’appartamento dove lei abita e nel quale i due hanno lavorato insieme per alcuni anni. Dallo sconcerto iniziale per quanto accaduto, Silvia si muove gradualmente verso la ricostruzione del passato di Diego, coetaneo di suo figlio, per riuscire a elaborarne la perdita, cercando di ipotizzare le ragioni di un gesto all’apparenza inspiegabile e di individuare le proprie eventuali responsabilità nei confronti di una giovane vita prematuramente spezzata: 

[...] in fondo ero certa che il segreto del suo destino stava in quegli anni in cui qualcuno doveva pur averlo cresciuto, amato. Perché volessi riprendere l’indagine, che cosa pensassi di fare dei risultati non mi era chiaro. Forse volevo pacificarmi per dimenticare.[13]

In Legami molto stretti (1994), forse la più emblematica tra le opere dell’autrice rispetto al tema della separazione, già il titolo prefigura la necessità di una presa di distanza da relazioni affettive che sono divenute insostenibili: l’io narrante è costantemente impegnato in un’operazione di recupero della propria storia personale, nel tentativo di far luce sulle cause di un malessere altrimenti inspiegabile e di superarlo. Per mezzo dell’ennesima autobiografica protagonista Cerati riesce a cogliere l’origine di una dinamica nella quale rimangono incagliati tutti i personaggi femminili delle sue opere:

[...] stupida e meschina, non riuscivo a staccarmi dalle persone, non riuscivo a staccarmi dal passato. Che senso c’era nel bisogno di esistere nella vita e nei pensieri del prossimo [...]? Dove avevo sbagliato? [...] E però, per quanto me lo negassi, avevo bisogno di amare e di essere amata [...].[14]     

Nel successivo romanzo L’amica della modellista (1996), l’autrice sembra portare a compimento questo lungo e sofferto processo di metabolizzazione del passato attraverso la storia di Francesca e Antonia: due amiche che hanno condiviso in gioventù esperienze difficili, sostenendosi sempre a vicenda, ma che si ritrovano in età adulta ad avere due visioni della vita assai distanti. Dal confronto fra i due personaggi nasce per Francesca la necessità di un allontanamento, seppur doloroso, dall’antica amicizia: “Si ama una persona perché ha determinati requisiti; ma quando si scopre di essersi sbagliati si può amarla ancora? Anche se non è più la stessa?”.[15] Il forte legame affettivo si trasforma progressivamente in un rapporto dalla valenza diversa: al rimpianto per l’antico sodalizio e alla frustrazione per l’impossibilità di ricrearlo, si sostituisce la presa di coscienza della protagonista di un cambiamento avvenuto dentro di sé e di nuove esigenze che la vecchia amicizia non può più soddisfare.

L’analisi del rapporto amicale tra donne è, peraltro, il fil rouge che attraversa anche L’intruso (2004): la dialettica tra la protagonista Adriana e l’amica Delia si snoda sui due piani paralleli riguardanti, da un lato, il difficile legame di Adriana con un padre ultracentenario e il profondo senso di colpa che la spinge a occuparsene dopo anni di mancata frequentazione, dall’altro, l’amicizia tra le due figure femminili che, attraverso un confronto dai toni talvolta aspri, finisce per rimodularsi sulla base delle loro reali affinità. Man mano che l’immagine monolitica e intransigente dell’anziano genitore lascia intravedere sfumature e sottintesi insospettati, le resistenze di Adriana nei suoi riguardi si allentano. La protagonista inizia, quindi, a rivalutare se stessa e il suo passato alla luce del nuovo rapporto filiale e a percepire quanto, dietro a quel senso del dovere che sembra essere l’unica spinta verso il padre, possano celarsi delle “affinità caratteriali e genetiche”[16] e un legame ben più sfaccettato e profondo: sebbene Adriana sia a sua volta avanti negli anni, il padre rappresenta ancora un riferimento imprescindibile da cui, tuttavia, è vitale separarsi.

Riprendendo in ogni storia il filo tessuto dalla precedente, e intrecciandolo con le nuove consapevolezze via via acquisite, Cerati descrive il cammino delle donne verso la liberazione come un percorso impervio e costantemente in fieri: la scrittrice guarda alle(a) protagoniste(a) da angoli prospettici diversi che corrispondono ad altrettanti legami sentimentali, al fine di assegnare a ogni rapporto affettivo una funzione ben precisa nel quadro generale di una ricerca “esemplarmente individuale e collettiva”.[17]

Smascherando uno a uno tutti i condizionamenti profondi a cui le donne sono inconsapevolmente sottoposte, nonché tutti gli alibi dietro ai quali talvolta tentano di occultarsi, la ricerca identitaria di Cerati è approdata alla certezza di poter superare l’identificazione con la cultura patriarcale e con coloro che la incarnano, per affrancarsi in via definitiva da ciò che ostacola la libera espressione e volontà del singolo.

A conclusione di un impietoso viaggio al termine di se stessa, la fotografa scrittrice giunge a indicare senza infingimenti “una possibile via d’uscita”,[18] non soltanto per le protagoniste delle sue opere ma per tutte le donne, e a prefigurare uno scenario ideale – e tuttavia plausibile – in cui le istanze libertarie e di emancipazione femminile si realizzano in proporzione alla capacità individuale di separarsi da situazioni o persone,  rifiutando gli elementi iterativi e obsoleti del passato e trasformandoli in fonte di conoscenza di sé e per sé, dell’altro e per l’altro. 





[1] Carla Cerati, Parola d’artista. Un occhio che filtra, seleziona, compone e taglia, in “Arte&Cronaca”, I, nn. 2-3, agosto-novembre 1986, pp. 25-26, a p. 25.
[2] Etta Lisa Basaldella, Carla Cerati: tra fantasia e realtà, intervista in “7 giorni Veneto”, 24 marzo 1977, in www.carlacerati.com
[3] Diego Mormorio, Un fronte tira l’altro, intervista a Carla Cerati, in “Il Messaggero”, 8 febbraio 1983.
[4] Massimo Mussini, Carla Cerati. La verità negata, in Massimo Mussini, Gloria Bianchino, Carla Cerati, Milano, Skira, 2007, pp. 9-191, a p. 11.
[5] Carla Cerati, Legami molto stretti, Milano, Frassinelli, 1994, pp. 1-272, a p. 99.
[6] Massimo Mussini, Carla Cerati. La verità negata, cit., p. 11.
[7] La trilogia Una donna del nostro tempo (Venezia, Marsilio, 2005) comprende i romanzi: Un matrimonio perfetto, Venezia, Marsilio, 2005 (I ed. 1975, Marsilio, successivamente riveduta nel 1991 per i tipi di Frassinelli), pp. 10-348; La condizione sentimentale, Venezia, Marsilio, 2005 (I ed. 1977, Marsilio, ripubblicato nel 1999 da Frassinelli), pp. 7-168; Il sogno della bambina, Venezia, Marsilio, 2005 (I ed. Marsilio, 1983, col titolo Uno e l’altro, ripubblicato da Frassinelli col medesimo titolo nel 1997), pp. 13-271.
[8] Carla Cerati, Un amore fraterno, Torino, Einaudi, 1973, pp. 9-102, a p. 23.
[9] Cfr. nota 7.
[10] Carla Cerati, La cattiva figlia, Milano, Frassinelli, 1990, pp. 3-263, a p. 77-78.
[11]Giovanna Bellesia, La cattiva figlia di Carla Cerati e la riscoperta del passato, in “Italian Culture”, Vol. 12, gennaio 1994, pp. 215-223, a p. 216.
[12] Ivi.
[13] Carla Cerati, La perdita di Diego, Milano, Frassinelli, 1992, pp. 1-131, a p. 103.
[14] Ead., Legami molto stretti, cit., pp. 200-201.
[15] Ead., L’amica della modellista, Milano, Frassinelli, 1996, pp. 1-148, a p. 105.
[16] Ead., L’intruso, Venezia, Marsilio, 2004, pp. 9-171, a p. 76. 
[17] Cesare De Michelis, Nota a Carla Cerati, Un matrimonio perfetto, cit., p. 352.
[18] Silvia Mazzucchelli, Lo sguardo di Antigone: appunti sulle fotografie e i romanzi di Carla Cerati, in “Nuova prosa”, semestrale di narrativa, n.65, maggio 2015, Milano, Greco & Greco editori, pp. 7-287, a p. 162.