[Separation of land and sea (Tino 2018). Foto Rb]
Prima ancora che come scrittrice
di romanzi Carla Cerati (1926-2016) si impone all’attenzione della critica e
del pubblico per la sua attività di fotografa - iniziata “per caso o per magia”[1] nel 1960 e divenuta per almeno un decennio
il suo mezzo espressivo privilegiato - al punto da essere annoverata tra le
rare voci femminili autorevoli della fotografia italiana fra gli anni ’70 e ’80.
Alla fotografia e
alla narrativa, utilizzati parallelamente per un certo periodo, la scrittrice
attribuisce ruoli distinti e complementari (“la fotografia mi serve per
documentare il presente, la parola per recuperare il passato”[2]),
tuttavia la scrittura finisce alla lunga per avere il sopravvento poiché, a
parere di Cerati, meglio si presta a sviscerare a fondo la dolorosa evoluzione
del suo percorso di ricerca: “mi fa soffrire di più scrivere, e questo è uno
dei motivi per cui, alla fine, diventa più importante che fotografare”.[3]
Nel trentennio che intercorre fra
gli anni ’70 e il Duemila la produzione letteraria dell’autrice si configura
come una grande ricerca narrativa riguardante un’unica (autobiografica)
protagonista il cui universo viene raccontato di volta in volta da una
prospettiva diversa, così da avere sotto gli occhi la storia sempre più
completa di una donna. È come se la narratrice, prendendo in prestito gli
accorgimenti tecnici dalla Cerati fotografa, mettesse a fuoco con ogni romanzo
un particolare, aggiungendo un nuovo tassello a una costruzione in costante
divenire: un work
in progress dall’andamento “a spirale che dal primo [romanzo] dedicato
all’infanzia e all’adolescenza, ci trasporta via via alle esperienze della vita
adulta”.[4]
L’elemento chiave attorno al
quale sembrano coagularsi le diverse storie è la necessità di elaborare la
separazione da ogni relazione affettiva
importante, di metabolizzare gli eventi e i rapporti interumani trascorsi
trasformandoli in un patrimonio unico di ricordi su cui costruire il presente,
ogni volta “disposti a giocarsi l’equilibrio raggiunto, la pace”.[5]
L’indagine retrospettiva
effettuata da Cerati attraverso i numerosi personaggi femminili caratterizza il
suo stile narrativo sia rispetto ai contenuti sia dal punto di vista della
struttura e della tecnica linguistica: la memoria non è intesa dall’autrice
quale “passiva rievocazione del passato, ma come dialettico contrappunto al
presente”[6] e progressivo svelamento di una ‘verità’
personale alla quale le protagoniste dei romanzi cercano di arrivare per
tentativi ed errori.
In una
parabola letteraria che appare a posteriori come
un grande metaracconto la scrittrice lega in modo indissolubile l’incessante
tentativo di superamento del passato da parte delle donne rappresentate alla
loro costruzione identitaria, completando romanzo dopo romanzo l’immagine di
un’unica donna e approfondendone di volta in volta uno specifico legame
sentimentale: in ogni opera ciascuna protagonista elabora la separazione da tutti coloro che costituiscono un importante riferimento
nella sfera relazionale, allo scopo di realizzare un’identità libera da
identificazioni e di trovare in se stessa le ragioni delle proprie scelte.
Il fratello, nel romanzo
d’esordio Un amore
fraterno (1973); il marito o i vari amanti, nella trilogia Una donna del nostro
tempo[7]; la madre, nell’opera La cattiva figlia
(1990); un giovane amico prematuramente scomparso, nel romanzo La perdita di Diego (1992);
la migliore amica, ne L’amica della
modellista (1996); il padre, infine, ne L’intruso (2004).
Pur dedicando a ciascuna di queste figure un romanzo in particolare, Cerati le
ripropone come personaggi minori in tutte le opere, mantenendo immutata la
dinamica relazionale con la protagonista principale.
In Un amore fraterno
(1973), la separazione dal fratello adorato, dovuta a una morte a lungo temuta
e attesa, avviene soltanto quando la protagonista ha finalmente il coraggio di
affrontare la dolorosa realtà della malattia e di coniugarla con l’immagine
idealizzata del congiunto; quando l’amore incondizionato per il complice e
compagno dei giochi d’infanzia viene a patti col profondo senso di pena
suscitato da un uomo il cui destino è ormai irrimediabilmente segnato: “mi resi
conto di come la morte, proprio nel suo essere irrimediabile, sia pietosa: ci
costringe a una presa di coscienza che da principio può sembrare più atroce e
che dà, invece, l’unica possibilità di ritrovarci”.[8]
All’interno della trilogia Una donna del nostro
tempo[9] Cerati solleva
la questione del divorzio come unico mezzo per liberare le protagoniste dei tre
romanzi (Un matrimonio
perfetto, La
condizione sentimentale, Il sogno della
bambina) da legami matrimoniali opprimenti che della famiglia di origine
riproducono “lo stesso meccanismo: nessuna libertà, [...] nessun richiesta di
complicità [...]; solo ostacoli e reprimende”.[10] Ambientate a Milano tra gli anni ’60 e
’70, quando il dibattito italiano sul divorzio era particolarmente acceso, le
tre opere presentano numerosi tratti autobiografici e affrontano in modo
trasversale il tema della separazione nell’ambito del rapporto uomo-donna,
approfondendone le dinamiche psichiche: il divorzio, prima ancora che a istanze
di tipo giuridico, rimanda a questioni di natura psicologica, essendo il suo
principale nucleo problematico quello di spezzare un cordone ombelicale
rispetto al quale le donne rappresentate faticano a contrapporre una reale e
valida alternativa.
I personaggi
femminili della triade, tutti accomunati dal bisogno di riscatto dalla
condizione di dipendenza materiale e psicologica da un uomo, mostrano altresì,
sebbene con gradi diversi di consapevolezza, un pari desiderio di
riappropriarsi di una dimensione corporea perduta in anni di consacrazione alla
sola funzione materna e di recuperare una piena corrispondenza fra le
percezioni legate al corpo e i sentimenti che emanano dalla sfera
psicoaffettiva.
In un altro romanzo
autobiografico, La
cattiva figlia (1990), la scrittrice utilizza il vissuto del rapporto con
la propria madre per rielaborarlo e prenderne le distanze, riuscendo alfine a
recuperare una visione più obiettiva dell’immagine materna e a rendersi conto
di come molte delle sue convinzioni si basino su “avvenimenti deformati dalla
società patriarcale in cui è cresciuta”[11]. La memoria del legame filiale, filtrata
attraverso la propria personale storia di donna (e di madre) si trasforma in
“un nuovo passato”,[12] prefigurando per lei un diverso futuro.
Con La perdita di Diego (1992),
Cerati racconta per mezzo della fotoreporter Silvia la storia di un ragazzo,
assistente fotografo della protagonista, che decide di togliersi la vita
proprio all’interno dell’appartamento dove lei abita e nel quale i due hanno
lavorato insieme per alcuni anni. Dallo sconcerto iniziale per quanto accaduto,
Silvia si muove gradualmente verso la ricostruzione del passato di Diego,
coetaneo di suo figlio, per riuscire a elaborarne la perdita, cercando di
ipotizzare le ragioni di un gesto all’apparenza inspiegabile e di individuare
le proprie eventuali responsabilità nei confronti di una giovane vita
prematuramente spezzata:
[...] in fondo ero
certa che il segreto del suo destino stava in quegli anni in cui qualcuno
doveva pur averlo cresciuto, amato. Perché volessi riprendere l’indagine, che
cosa pensassi di fare dei risultati non mi era chiaro. Forse volevo pacificarmi
per dimenticare.[13]
In Legami molto stretti
(1994), forse la più emblematica tra le opere dell’autrice rispetto al tema
della separazione, già il titolo prefigura la necessità di una presa di
distanza da relazioni affettive che sono divenute insostenibili: l’io narrante
è costantemente impegnato in un’operazione di recupero della propria storia
personale, nel tentativo di far luce sulle cause di un malessere altrimenti
inspiegabile e di superarlo. Per mezzo dell’ennesima autobiografica
protagonista Cerati riesce a cogliere l’origine di una dinamica nella quale
rimangono incagliati tutti i personaggi femminili delle sue opere:
[...] stupida e meschina, non
riuscivo a staccarmi dalle persone, non riuscivo a staccarmi dal passato. Che
senso c’era nel bisogno di esistere nella vita e nei pensieri del prossimo
[...]? Dove avevo sbagliato? [...] E però, per quanto me lo negassi, avevo
bisogno di amare e di essere amata [...].[14]
Nel successivo romanzo L’amica della
modellista (1996), l’autrice sembra portare a compimento questo lungo e
sofferto processo di metabolizzazione del passato attraverso la storia di
Francesca e Antonia: due amiche che hanno condiviso in gioventù esperienze
difficili, sostenendosi sempre a vicenda, ma che si ritrovano in età adulta ad
avere due visioni della vita assai distanti. Dal confronto fra i due personaggi
nasce per Francesca la necessità di un allontanamento, seppur doloroso,
dall’antica amicizia: “Si ama una persona perché ha determinati requisiti; ma
quando si scopre di essersi sbagliati si può amarla ancora? Anche se non è più
la stessa?”.[15] Il forte legame affettivo si trasforma
progressivamente in un rapporto dalla valenza diversa: al rimpianto per
l’antico sodalizio e alla frustrazione per l’impossibilità di ricrearlo, si
sostituisce la presa di coscienza della protagonista di un cambiamento avvenuto
dentro di sé e di nuove esigenze che la vecchia amicizia non può più
soddisfare.
L’analisi del rapporto amicale
tra donne è, peraltro, il fil rouge che
attraversa anche L’intruso
(2004): la dialettica tra la protagonista Adriana e l’amica Delia si snoda
sui due piani paralleli riguardanti, da un lato, il difficile legame di Adriana
con un padre ultracentenario e il profondo senso di colpa che la spinge a
occuparsene dopo anni di mancata frequentazione, dall’altro, l’amicizia tra le
due figure femminili che, attraverso un confronto dai toni talvolta aspri,
finisce per rimodularsi sulla base delle loro reali affinità. Man mano che
l’immagine monolitica e intransigente dell’anziano genitore lascia intravedere
sfumature e sottintesi insospettati, le resistenze di Adriana nei suoi riguardi
si allentano. La protagonista inizia, quindi, a rivalutare se stessa e il suo
passato alla luce del nuovo rapporto filiale e a percepire quanto, dietro a
quel senso del dovere che sembra essere l’unica spinta verso il padre, possano
celarsi delle “affinità caratteriali e genetiche”[16] e un legame ben più sfaccettato e
profondo: sebbene Adriana sia a sua volta avanti negli anni, il padre
rappresenta ancora un riferimento imprescindibile da cui, tuttavia, è vitale
separarsi.
Riprendendo in ogni
storia il filo tessuto dalla precedente, e intrecciandolo con le nuove
consapevolezze via via acquisite, Cerati descrive il cammino delle donne verso
la liberazione come un percorso impervio e costantemente in fieri: la
scrittrice guarda alle(a) protagoniste(a) da angoli prospettici diversi che
corrispondono ad altrettanti legami sentimentali, al fine di assegnare a ogni
rapporto affettivo una funzione ben precisa nel quadro generale di una ricerca
“esemplarmente individuale e collettiva”.[17]
Smascherando uno a
uno tutti i condizionamenti profondi a cui le donne sono inconsapevolmente
sottoposte, nonché tutti gli alibi dietro ai quali talvolta tentano di
occultarsi, la ricerca identitaria di Cerati è approdata alla certezza di poter
superare l’identificazione con la cultura patriarcale e con coloro che la
incarnano, per affrancarsi in via definitiva da ciò che ostacola la libera
espressione e volontà del singolo.
A conclusione di un
impietoso viaggio al termine di se stessa, la fotografa scrittrice giunge a indicare senza
infingimenti “una possibile via d’uscita”,[18] non soltanto per le protagoniste delle
sue opere ma per tutte le donne, e a prefigurare uno scenario ideale – e
tuttavia plausibile – in cui le istanze libertarie e di emancipazione femminile
si realizzano in proporzione alla capacità individuale di separarsi da
situazioni o persone, rifiutando gli elementi iterativi e obsoleti del
passato e trasformandoli in fonte di conoscenza di sé e per sé, dell’altro e
per l’altro.
[1]
Carla Cerati, Parola
d’artista. Un occhio che filtra, seleziona, compone e taglia, in
“Arte&Cronaca”, I, nn. 2-3, agosto-novembre 1986, pp. 25-26, a p. 25.
[2] Etta
Lisa Basaldella, Carla
Cerati: tra fantasia e realtà, intervista in “7 giorni Veneto”, 24 marzo
1977, in www.carlacerati.com.
[3] Diego
Mormorio, Un
fronte tira l’altro, intervista a Carla Cerati, in “Il Messaggero”, 8
febbraio 1983.
[4]
Massimo Mussini, Carla
Cerati. La verità negata, in Massimo Mussini, Gloria Bianchino, Carla Cerati,
Milano, Skira, 2007, pp. 9-191, a p. 11.
[5] Carla
Cerati, Legami
molto stretti, Milano, Frassinelli, 1994, pp. 1-272, a p. 99.
[6]
Massimo Mussini, Carla
Cerati. La verità negata, cit., p. 11.
[7] La
trilogia Una donna
del nostro tempo (Venezia, Marsilio, 2005) comprende i romanzi: Un matrimonio
perfetto, Venezia, Marsilio, 2005 (I ed. 1975, Marsilio, successivamente
riveduta nel 1991 per i tipi di Frassinelli), pp. 10-348; La condizione
sentimentale, Venezia, Marsilio, 2005 (I ed. 1977, Marsilio, ripubblicato
nel 1999 da Frassinelli), pp. 7-168; Il sogno della
bambina, Venezia, Marsilio, 2005 (I ed. Marsilio, 1983, col titolo Uno e l’altro,
ripubblicato da Frassinelli col medesimo titolo nel 1997), pp. 13-271.
[8]
Carla Cerati, Un
amore fraterno, Torino, Einaudi, 1973, pp. 9-102, a p. 23.
[9]
Cfr. nota 7.
[10] Carla
Cerati, La cattiva
figlia, Milano, Frassinelli, 1990, pp. 3-263, a p. 77-78.
[11]Giovanna
Bellesia, La
cattiva figlia di Carla Cerati e la riscoperta del passato, in “Italian
Culture”, Vol. 12, gennaio 1994, pp. 215-223, a p. 216.
[12] Ivi.
[13] Carla
Cerati, La perdita
di Diego, Milano, Frassinelli, 1992, pp. 1-131, a p. 103.
[14] Ead.,
Legami molto
stretti, cit., pp. 200-201.
[15] Ead.,
L’amica della
modellista, Milano, Frassinelli, 1996, pp. 1-148, a p. 105.
[16] Ead.,
L’intruso,
Venezia, Marsilio, 2004, pp. 9-171, a p. 76.
[17] Cesare
De Michelis, Nota
a Carla Cerati, Un
matrimonio perfetto, cit., p. 352.
[18]
Silvia Mazzucchelli, Lo sguardo di
Antigone: appunti sulle fotografie e i romanzi di Carla Cerati, in “Nuova
prosa”, semestrale di narrativa, n.65, maggio 2015, Milano, Greco &
Greco editori, pp. 7-287, a p. 162.