23/05/18

Maurizio Masi, RECENSIONE A UN ARTICOLO DI G. SCARFONE SUL LANCIATORE DI GIAVELLOTTO DI P. VOLPONI

L’articolo di Gloria Scarfone parte da una precisa intenzione:[1] fare una puntualizzazione e ricollocare l’esperienza narrativa del Lanciatore di giavellotto di Paolo Volponi in un margine più vasto di vedute e considerazioni, di motivazioni ideologiche che non si limitino a relegare il testo fra le opere minori dell’autore urbinate, considerandolo, soprattutto da un punto di vista psicologico, quale ritorno ad una fase primigenia, adolescenziale, di romanzo di formazione del protagonista, rappresentata, ad esempio,  da La strada per Roma.

Sulla base del dialettico rapporto adorniano avanguardia-conservazione, argomenta l’autrice del saggio, anche Emanuele Zinato si è espresso, per questo romanzo, a favore della seconda linea interpretativa. In particolare tale considerazione nasce dalla constatazione del fatto che la mentalità del nonno di Damìn, l’anziano Damiano Possanza, conservatore di un ordine familiare atavico, quasi  inviolabile e sacro, di un’arte – quella del vasaio – che si tramanda di generazione in generazione, sulla cui rottura e cambiamenti Damiano non ascolta né prevede ragioni plausibili di mutamenti, il nipote incarna l’elemento di rottura rappresentato da un’adolescenza difficile, silenziosa ed introversa, che si scontra con i modelli e gli archetipi mentali forti ed ossessivi, del tutto totalizzanti: quelli del fascismo e dei suoi miti e rituali fisico-corporali. A questo punto, evidenziando anche il rapporto difficile e mal vissuto tra il corpo sensuale, vivo, della madre e la cittadina di Fossombrone, il fisico robusto dell’adolescente e l’arte del vasaio che viene a contatto con l’elemento primigenio della terra, l’autrice si sofferma in particolare su quest’ultimo rapporto che sostiene, secondo lei, tutta l’impalcatura metaforica del testo, connotandolo di significati non sempre facilmente intuibili.

Mentre il nonno spiega il carattere e la predisposizione artistica di Damìn riconducendola ad un contesto famigliare, rinvenendo in lui la fisionomia del vasaio ideale, abile disegnatore stimato dai compagni di scuola, Damìn, in una riflessione a latere nel testo, riferendosi all’amata sorella minore, paragona la figura sottile, allungata e stretta di un raffinato vaso di terracotta smaltato, all’indole ed al fisico ancora innocente, non formatasi e contaminato dalle suggestioni del sesso della sorella che, con evidente riferimento all’esilità stessa del vaso in questione, si chiama Vitina. Questo pensiero di purezza e delicatezza nei riguardi di Vitina costituisce il nucleo ossessivo del pensiero di Damìn: l’antitesi fra sensualità e purezza, tra candore e corporalità che non potrà risolversi, se non in un crescendo ossessivo di suggestioni e di ripensamenti, infine nella morte del protagonista e nell’omicidio della sorella della cui integrità morale e fisica Damìn è nascostamente custode.

Damìn è, sicuramente, segnato dalle contraddizioni del suo tempo, a cui non si piega ed oppone una resistenza che finisce per trasformarsi in idee fisse ed incapacità di concentrazione nello studio, consunzione di energie psichiche, quasi ossessione e psicosi. Se, da un certo punto di vista, il contesto storico-sociale sembra sintetizzare in sé la causa di questo malessere del protagonista quale specchio dei fatti esterni, reali, non si può semplicemente ricondurre il comportamento di Damìn ad una facile regressione nell’infanzia preedipica. Il contesto psicologico è semplicemente descritto, fatto palese al lettore e Damìn lo accetta per come si configura; l’autore non propone soluzioni, si limita ai dati di fatto. Il dolore di Damìn, in questo senso, può essere definito astorico perché prescinde dal contesto di riferimento per divenire dimensione interiore ed esistenziale: quasi a significare che il dolore del protagonista è anche quello di Guido Corsalini, il giovane e bel narcisista, innamorato dei suoi riflessi sugli altri, che si compiace delle sue conquiste erotiche, delle sue pulsioni e della sua corporalità con la quale tenta di approcciarsi alla realtà circostante.

Mentre per Gadda, a cui viene subito da pensare, il fascismo è pieno di riferimenti e pulsioni sessuali, nel caso del Lanciatore di giavellotto - ricorda Scarfone - fu proprio l’autore stesso - a  suo tempo - ad affermare che col termine Storia, in questo caso, è bene rifarsi ad un contesto molto più ampio di quello fascista rappresentato nel romanzo. Il testo si realizza ed il suo messaggio si compie, piuttosto, quale dimostrazione di una crescita mancata, di una difficoltà relazionale del personaggio con i vari aspetti della realtà. Scarfone, molto saggiamente, insiste sul fatto che il nodo del romanzo, la sua chiave interpretativa è da ricercare proprio nell’impatto lacerante del personaggio con la Storia e viceversa. L’autore è interessato non solo ad una rappresentazione interiore, psicologica, ma va al di là del singolo caso, per ritrarre una condizione generale di distonia fra adolescenza e maturità, fra Io e Storia, tratto tipico - quest’ultimo - della sua narrativa.

L’etica del lavoro di cui il nonno si fa forte si ferma solo ad una fredda constatazione di fatto dell’assiduità lavorativa di Norma che, effettivamente, riesce nel suo lavoro, ma non sottintende il dolore per la morte dei figli e distoglie i sensi di colpa concentrandosi sulle piacevoli forme fisiche e cromatiche dei vasi d’argilla. Ed anche il ceppo funebre reciso e modellato dal nonno per la tomba dei due nipoti simboleggia in realtà la sua incapacità di portare ad una risoluzione, o almeno di ricercare gli strumenti adeguati per risolverla, la drammatica situazione interiore vissuta da Damìn. Ma l’arte rappresenta, in questo modo, solo una sublimazione fine a se stessa, senza risoluzioni, visto che neppure lo sport - il lancio del giavellotto appunto - riesce per Damìn a dimostrarsi un valido strumento di salvezza e di distrazione mentale.

L’incapacità di Damiano Possanza di sciogliere il malessere del nipote risale alla disparità di età e di vedute ideologiche fra due generazioni lontane nel tempo e nei fatti, come nel pensiero: nell’antitesi fra presente e passato, quando era ancora poteva avere un senso reprimere con l’attenzione al lavoro, la passione e la dedizione totalizzante ad esso, i moti istintuali che Damìn non riesce a dominare e che intorbidano i suoi pensieri. Damìn è un paradigma del male dei nostri giorni e il Lanciatore di giavellotto un contesto tipico o, forse meglio, un dramma intimo che raffigura l’inadattabilità degli schemi mentali del passato a quelli del presente, alle profonde difficoltà esistenziali dell’età post-moderna.  


[1] Gloria Scarfone, “L'uscita dall'idillio primigenio. Sul Lanciatore di giavellotto di Paolo Volponi”, Italianistica, 3, 2016, pp. 163-75.