Sulla
base del dialettico rapporto adorniano avanguardia-conservazione, argomenta l’autrice
del saggio, anche Emanuele Zinato si è espresso, per questo romanzo, a favore
della seconda linea interpretativa. In particolare tale considerazione nasce
dalla constatazione del fatto che la mentalità del nonno di Damìn, l’anziano
Damiano Possanza, conservatore di un ordine familiare atavico, quasi inviolabile e sacro, di un’arte – quella del
vasaio – che si tramanda di generazione in generazione, sulla cui rottura e
cambiamenti Damiano non ascolta né prevede ragioni plausibili di mutamenti, il
nipote incarna l’elemento di rottura rappresentato da un’adolescenza difficile,
silenziosa ed introversa, che si scontra con i modelli e gli archetipi mentali
forti ed ossessivi, del tutto totalizzanti: quelli del fascismo e dei suoi miti
e rituali fisico-corporali. A questo punto, evidenziando anche il rapporto
difficile e mal vissuto tra il corpo sensuale, vivo, della madre e la cittadina
di Fossombrone, il fisico robusto dell’adolescente e l’arte del vasaio che
viene a contatto con l’elemento primigenio della terra, l’autrice si sofferma
in particolare su quest’ultimo rapporto che sostiene, secondo lei, tutta l’impalcatura
metaforica del testo, connotandolo di significati non sempre facilmente
intuibili.
Mentre
il nonno spiega il carattere e la predisposizione artistica di Damìn
riconducendola ad un contesto famigliare, rinvenendo in lui la fisionomia del
vasaio ideale, abile disegnatore stimato dai compagni di scuola, Damìn, in una
riflessione a latere nel testo, riferendosi all’amata sorella minore,
paragona la figura sottile, allungata e stretta di un raffinato vaso di
terracotta smaltato, all’indole ed al fisico ancora innocente, non formatasi e
contaminato dalle suggestioni del sesso della sorella che, con evidente
riferimento all’esilità stessa del vaso in questione, si chiama Vitina. Questo
pensiero di purezza e delicatezza nei riguardi di Vitina costituisce il nucleo
ossessivo del pensiero di Damìn: l’antitesi fra sensualità e purezza, tra
candore e corporalità che non potrà risolversi, se non in un crescendo
ossessivo di suggestioni e di ripensamenti, infine nella morte del protagonista
e nell’omicidio della sorella della cui integrità morale e fisica Damìn è
nascostamente custode.
Damìn
è, sicuramente, segnato dalle contraddizioni del suo tempo, a cui non si piega
ed oppone una resistenza che finisce per trasformarsi in idee fisse ed
incapacità di concentrazione nello studio, consunzione di energie psichiche,
quasi ossessione e psicosi. Se, da un certo punto di vista, il contesto storico-sociale
sembra sintetizzare in sé la causa di questo malessere del protagonista quale
specchio dei fatti esterni, reali, non si può semplicemente ricondurre il
comportamento di Damìn ad una facile regressione nell’infanzia preedipica. Il
contesto psicologico è semplicemente descritto, fatto palese al lettore e Damìn
lo accetta per come si configura; l’autore non propone soluzioni, si limita ai
dati di fatto. Il dolore di Damìn, in questo senso, può essere definito
astorico perché prescinde dal contesto di riferimento per divenire dimensione
interiore ed esistenziale: quasi a significare che il dolore del protagonista è
anche quello di Guido Corsalini, il giovane e bel narcisista, innamorato dei
suoi riflessi sugli altri, che si compiace delle sue conquiste erotiche, delle
sue pulsioni e della sua corporalità con la quale tenta di approcciarsi alla
realtà circostante.
Mentre
per Gadda, a cui viene subito da pensare, il fascismo è pieno di riferimenti e
pulsioni sessuali, nel caso del Lanciatore di giavellotto - ricorda
Scarfone - fu proprio l’autore stesso - a
suo tempo - ad affermare che col termine Storia, in questo caso, è bene
rifarsi ad un contesto molto più ampio di quello fascista rappresentato nel
romanzo. Il testo si realizza ed il suo messaggio si compie, piuttosto, quale
dimostrazione di una crescita mancata, di una difficoltà relazionale del
personaggio con i vari aspetti della realtà. Scarfone, molto saggiamente,
insiste sul fatto che il nodo del romanzo, la sua chiave interpretativa è da
ricercare proprio nell’impatto lacerante del personaggio con la Storia e
viceversa. L’autore è interessato non solo ad una rappresentazione interiore,
psicologica, ma va al di là del singolo caso, per ritrarre una condizione
generale di distonia fra adolescenza e maturità, fra Io e Storia, tratto tipico
- quest’ultimo - della sua narrativa.
L’etica
del lavoro di cui il nonno si fa forte si ferma solo ad una fredda
constatazione di fatto dell’assiduità lavorativa di Norma che, effettivamente,
riesce nel suo lavoro, ma non sottintende il dolore per la morte dei figli e
distoglie i sensi di colpa concentrandosi sulle piacevoli forme fisiche e
cromatiche dei vasi d’argilla. Ed anche il ceppo funebre reciso e modellato dal
nonno per la tomba dei due nipoti simboleggia in realtà la sua incapacità di
portare ad una risoluzione, o almeno di ricercare gli strumenti adeguati per risolverla,
la drammatica situazione interiore vissuta da Damìn. Ma l’arte rappresenta, in
questo modo, solo una sublimazione fine a se stessa, senza risoluzioni, visto
che neppure lo sport - il lancio del giavellotto appunto - riesce per Damìn a
dimostrarsi un valido strumento di salvezza e di distrazione mentale.
L’incapacità
di Damiano Possanza di sciogliere il malessere del nipote risale alla disparità
di età e di vedute ideologiche fra due generazioni lontane nel tempo e nei
fatti, come nel pensiero: nell’antitesi fra presente e passato, quando era
ancora poteva avere un senso reprimere con l’attenzione al lavoro, la passione
e la dedizione totalizzante ad esso, i moti istintuali che Damìn non riesce a
dominare e che intorbidano i suoi pensieri. Damìn è un paradigma del male dei
nostri giorni e il Lanciatore di giavellotto un contesto tipico o, forse
meglio, un dramma intimo che raffigura l’inadattabilità degli schemi mentali
del passato a quelli del presente, alle profonde difficoltà esistenziali dell’età
post-moderna.
[1] Gloria Scarfone, “L'uscita
dall'idillio primigenio. Sul Lanciatore
di giavellotto di Paolo Volponi”, Italianistica,
3, 2016, pp. 163-75.