01/05/18

Gianluca Ciccarelli, BALLATA PER I DISPERSI


Roma, Castelvecchi, 2018



Il clima di un inverno insperatamente tiepido che riporta la curva dei suicidi alla media annuale sembra dare il tono alla scrittura della ballata che Gianluca Ciccarelli, facendo ricorso a una forma letteraria che prende le distanze dalla prosa, dedica ai dispersi. Sin dall’incipit, in effetti la scrittura si rivela più vicina alla lingua poetica, alla lingua cantata: “Lenta scende questa notte sul mio mare, il mare che mi riporta a casa”.  Proprio la scelta di una lingua vicina alla poesia dà una coloritura particolare alla prosa di Ciccarelli e dispone all’ascolto di un racconto che tocca corde intese e profonde e che e dà l’avvio a un ritorno in Sicilia che è soprattutto un viaggio all’interno di se stessi.

Dopo la dispersione, l’essersi perduti, l’aver subito una catastrofe, si ritorna attraversando il mare a casa. Qui c’è una madre che non può più riconoscere il figlio, chiusa come in un antro buio da una malattia che ne ha spento la memoria. La madre non può più riconoscere il figlio, ma è il figlio stesso a non sapere più chi sia, si sente solo uno straniero che chiede asilo.  È straordinaria la densità che Ciccarelli riesce creare nel testo narrativo, sovrapponendo nello spazio di poche righe il tema del viaggio, del ritorno, il ritorno alla madre, col ricorso a figure retoriche più adatte alla poesia che alla prosa. L’ossimoro è usato per definire l’impossibile dialogo con la madre (“silenziosi colloqui”), e più avanti “assordante silenzio” viene definita la vita moderna che ci riempie di immagini false e insensate, ci spinge alla ricerca frenetica del nuovo che stanca e intossica.

Grazie anche all’uso di queste figure retoriche, il testo si trasforma in una spirale che cambia continuamente di segno il significato trasformandolo nel suo contrario e permettendoci di rivedere la realtà da un nuovo punto di vista. Lo sguardo vuoto di sua madre, ormai persa in se stessa dalla malattia, si può rivelare più acuto del nostro, in realtà potrebbe essere rivolto verso un punto che noi non riusciamo più a vedere, oppure potrebbe difenderci da qualcosa di troppo forte che solo lei può vedere e che solo lei è in grado di sopportare.

Il ritorno del figlio avviene dopo un lungo viaggio per mare attraverso la notte, ma il buio è anche quello che ha accompagnato per lungo tempo la vita del protagonista, percepita ora come morte interiore. L’allontanamento dall’isola, dalla madre, dal padre, dalla famiglia e dalla terra, la Sicilia, si è trasformato in una fuga proprio da se stessi. 

Il viaggio inizia dunque nel regno della notte e del sonno in cui è il sogno che la fa da padrone e in cui ritornano a galla immagini oniriche colme di nuovi significati, cariche del peso vitale dei simboli vivi da cui l’anima viene visitata e rigenerata. Ed ecco come la densità del testo descrive questo processo che da anni la psicoanalisi e la psicologia del profondo hanno scandagliato: “Si affollano garbatamente, queste immagini umide e disordinate verso la sponda della mia veglia, come ne uscissero dopo il lavacro in una piscina naturale, abbellita da mille giochi d’acqua, che ne alternano la percezione, rendendole continuamente mutevoli a seconda di come la luce vi si posa. O, forse, sono le stesse immagini a sprigionare dal loro interno una luce che si frange e ricompone, rendendomi la loro apparizione costantemente inafferrabile?”. Le immagini anche se incomprensibili alla coscienza hanno una forza vitale che sembra sostenere, addirittura indirizzare in avanti verso il futuro e ripescare dal passato ricordi, scene di vita e racconti.

Il testo si scioglie in molteplici rivoli che danno spazio a pensieri, a riflessioni, a brevi dichiarazioni filosofiche come questa affidata alla voce del padre: “Ho sempre voluto passare il mio tempo con chi ha amato i propri demoni. Ho sempre disprezzato chi ne ha paura e li trasforma in malattie. Come puoi aver paura di qualcosa di tuo che ti appartiene e che ti forma.” Di fronte alla madre che non lo riconosce più o forse è la prima volta che lo riconosce veramente, il figlio recupera con tenerezza la figura del padre, siciliano atipico, lieve e poco virile, ma capace di indicare al figlio una via iniziatica per la propria mascolinità al di fuori degli stereotipi, fatta di accettazione della propria irriducibile unicità. È la ricerca della vera natura di noi stessi a rendere unico e sacro ogni vero atto d’amore, anche l’amore di Achille per il padre e del padre per Achille che è in grado di reggere alla prova della morte. 

Il padre e la sua vita diventano dunque il perno intorno al quale la vita del protagonista riprende a srotolarsi, i luoghi del padre si oppongono, anzi insorgono contro le sue “abitudini di cosmopolita, di poliglotta, aggiornato di tutto, perennemente connesso col niente” al di là del nostro “tempo affamato”, e la vita precedente fatta di troppi viaggi, di troppi incontri, di troppe immagini, di troppe parole, moltiplicate a dismisura dalle connessioni della “realtà” virtuale, si sgretola davanti a un presente che costringe a percepire la vita senza filtri.



[Rossana Dedola]