13/09/17

Victoria Surliuga, EZIO GRIBAUDO, IL MIO PINOCCHIO



[Foto fornita da V. Surliuga. Crediti Fotografici: Andrea Guermani. Per gentile concessione dell’Archivio Gribaudo. Ezio Gribaudo, Pinocchio a San Basilio, 1989, tecnica mista, collage e flani, 73 x 53 cm.]



Pistoia, Edizioni Gli Ori, 2017

Victoria Surliuga, in Ezio Gribaudo, Il mio Pinocchio, analizza con cura l’opera dell’artista torinese, di cui si occupa da anni e sulla cui opera ha già scritto il volume Ezio Gribaudo, The Man in the Middle of Modernism (2016). Il titolo del libro su Pinocchio nel lavoro di Gribaudo denota già, con quel mio, che la resa pittorica in questione è un’interpretazione personale del racconto collodiano, cosa più volte accaduta in altri ambiti, dall’illustrazione al film, ma occorreva la grande sensibilità dell’autrice per la lettura delle immagini, nel porre in rilievo le facoltà ludiche e metamorfiche di Gribaudo alle prese con il burattino-archetipo nei momenti legati all’estetica dell’autore e della sua “molteplicità concettuale” (p. 14). Il volume raccoglie, infatti, una lunga serie di riproduzioni delle opere gribaudiane che l’autrice si è incaricata di interpretare tenendo presente il Leitmotiv: “quello di un soggetto che può solo continuare a dividersi” (p. 25) senza mai risolversi, vista la giocosa erranza in cui si offre: in mongolfiera, in bicicletta, a Venezia, in Egitto, nella selva con Eva, cioè “in una forma di jouissance eternamente presente e senza conclusione” (p. 26) o di vitalismo dell’eterno Pinocchio che, precisa Victoria Surliuga, non può certo rientrare nel genere Bildungsroman come accettazione della vita borghese dove Collodi lo imprigiona, ma nemmeno l’Entwiklungsroman nel senso del soggettivo dispiegarsi di una individualità.

La studiosa ha saputo, con elegante fluency, riassumere i necessari riferimenti di ordine critico, figurativo e junghiano, legati alla lettura del famoso libro, tornando ogni volta a precisare l’attività dell’artista, il quale esplora la sagoma di Pinocchio “nelle sue metamorfosi esistenziali […] [senza] nessun richiamo alla storia del burattino” (p.7) e all’elemento didattico: sagoma, dunque, ogni volta identificabile, archetipica, ma in sempre nuovi scenari creativi. L’autrice chiarisce: “superata la fase mimetica dei disegni che seguono alcuni episodi del romanzo, [Gribaudo] considera Pinocchio come una forma geometrica e meccanica. La sua origine non è determinabile, tranne per quanto riguarda la creazione stessa delle matrici, e il suo inserimento crea nuovi spazi narrativi dettati dal contesto delle tematiche care all’autore quali i flani” (p. 9). Questi Pinocchi così diversi l’uno dall’altro, ci permettono ogni volta di riconoscerli nei loro mutevoli scenari (per cui si può dire: “Eccoli di nuovo!”) perché nel defalcarli Gribaudo conserva certi elementi distintivi irrinunciabili come il naso, il cappello, un braccio o una gamba – specie di morfemi grafici fissi – anche se la loro individuazione continua “ad essere posticipata”.

Fra i suoi riferimenti, Victoria Surliuga cita, oltre a Manganelli e Hoffmann (riguardo alla narrazione parallela e alla figura del doppio) anche Calvino per la sua interpretazione di opera classica: “Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui” (p. 14) e nel lavoro di Gribaudo accade all’incirca così, perché lo spunto deriva dal classico romanzo di Collodi, ma per favorirne l’aspetto ludico e avventuroso. Il fatto che “la conclusione della sequenza [sia] continuamente posticipata e non si compia mai del tutto” (p. 13) come precisa l’autrice, esclude, appunto, l’iter narrativo con il suo dénouement, che dalle Etiopiche di Eliodoro in poi ha caratterizzato il romanzo: basti pensare a quelli medioevali di Chrétien de Troyes, all’avventuroso Scimmiotto di Wu Ch’êng-ên, o all’orientale Le mille e una notte. È vero che in Hoffmann (e in modo psicologicamente più complesso in Dostoevskij) abbiamo la figura del doppio e dell’automa, ma alla fine l’Olimpia di Hoffmann si rivela un congegno meccanico che ha sviato il folle Nataniele dalla sua amata. Gribaudo evita questo scioglimento, soprattutto il transito dalla trasgressione al nomos, dove il burattino diventa un bravo ragazzo, anzi incrementa proprio l’aspetto avvincente nel romanzo di Collodi: il rilancio delle sue continue e picaresche avventure. Proprio per questo Victoria Surliuga, nel citare la descrizione di Pinocchio di Elémire Zolla come “archetipo della morte e della rinascita [che] quasi dappertutto e sempre torna a vestirsi della forma simbolica d’un inghiottimento nel ventre della balena o delle sofferenze dell’asino o infine del serpente verde che atterrisce ma ha il segreto della rinascita” (p. 15 sg.) esclude dalle immagini di Gribaudo “un processo di crescita del personaggio collodiano in sé” mentre “gli sfondi progrediscono piuttosto in un’evoluzione narrativa secondo una modalità voluta e decisa  dall’artista per il quale il soggetto diventa, per citare Derrida, un ‘supplemento’, qui inteso come un’aggiunta a una situazione potenzialmente già completa ma che il pittore vuole completare con un elemento ulteriore – che a sua volta finisce per diventare il tema stesso della composizione” (p. 16).

Morte simbolica e rinascita (ad esempio in Le metamorfosi di Apuleio, dove Lucio, tramite la rivelazione di Iside, cessa di essere un asino per dedicare la propria vita alla dea, o il biblico Giona nel ventre della balena) comportano la chiusura della narrazione, mentre il Pinocchio di Gribaudo ripresenta il “suo aspetto di automa seriale […] sempre all’interno del post-umano, come robot dalle possibilità che non rientrano nelle capacità degli esseri umani [e in] un ipertesto, ovvero un punto di partenza che ingloba e crea rimandi continui a situazioni esterne, testi e riferimenti culturali” (p. 16 e sg). A emergere è insomma una sorta di moto perpetuo come si dà in composizioni musicali impostate sulla stessa figurazione: basti pensare all’Opera II di Paganini, all’Op 14 di Carl Maria von Weber e alla Sonata per piano e violino di Ravel. Certo, se si rimane all’interno dell’iconografia, ci si può riferire anche alle sequenze dei futuristi citati dalla Surliuga, basate sul movimento, mentre giocando con la comparatistica potremmo anche supporre che le composizioni musicali in cui lo stesso motivo – tramite l’uso dei ponti modulanti – riappare variato in tonalità, colore e orchestrazione, possa avvicinarsi di più alle “variazioni sul tema” di Gribaudo. Del resto, gli illustratori del libro di Collodi non seguono certo le teorie di Lessing: usano, infatti, un codice estraneo a quello linguistico, così come si è tentata l’equivalenza fra colori e note musicali, cioè fra la percezione visiva e quella auditiva.

L’idea di un post-umano permette a Victoria Surliuga di riprendere, in breve, i motivi affrontati da Massimo Riva nel suo Pinocchio digitale, dove il burattino, ponendosi come critico del principio d’incompletezza, spinge Riva a spiegare la cultura umana “come prodotto […] di un’insufficienza biologica [...] e relativo anelito di trascendenza” (p.17 sg.). Certo, alcuni personaggi fantastici, come il noto Superman, trascendono le possibilità umane (e permettono allo spettatore di identificarsi con l’artificiale Übermensch) ma più convincenti mi sembrano i due passaggi in cui l’autrice indica nel Pinocchio di Gribaudo “un cammino parallelo a quello del pittore, rappresentandone così uno sdoppiamento” e – seguendo Massimo Riva – il fatto che l’umanità sia “una marionetta senza più fili visibili che la vincolano o la avviluppano al suo ambiente” ma in cerca di rendersi degna della natura umana cui aspira (p. 19). Il volume di Victoria Surliuga si chiude con una serie di brevi schede in cui interpreta e definisce ulteriormente alcune opere dell’artista.


[Silvio Aman]