[Elephant Hunt (Hanoi Fine Arts Museum,
2016). Foto Rb]
Colin Rhodes, Primitivism in
Modern Art. I edizione 1994. Londra, Thames and Hudson, 1997
Da
tempo l’idea di “primitivo”, “selvaggio” (nelle connotazioni negative, non se
usata con connotazioni positive come in Levi Strauss) e altre parole di questa
serie semantica risultano politicamente scorrette. Personalmente abbiamo talora
usato il termine “arcaico”; Rhodes adopera parecchie volte l’espressione
“tribal people” e ascrive le connotazioni spregiative all’influsso culturale di
Darwin, Haeckel e Spencer, col corollario che il “primitivo” sarebbe meno
evoluto e valido del “civilizzato”, da cui la “missione civilizzatrice”
dell’imperialismo occidentale e un aspetto anche del razzismo (p. 14). Accanto
all’idea del “primitivo” come antecedente socio-antropologico della modernità,
si pone il primitivismo della psiche e dell’infanzia, dal che il “folle” e il
“fanciullo” rappresenterebbero stadi evolutivi cui rifarsi nella ricerca a
ritroso delle origini.
Tuttavia,
a differenza dell’Orientalismo, che a parere di Rhodes, in parte fondandosi su
Said, vede il mondo non moderno dell’Oriente come inferiore a quello
dell’Occidente, i primitivisti sono in sintonia con quel mondo e lo valutano in
positivo per nostalgia archetipica e sociale, illusione che rappresenti un Eden
incontaminato, infine che possa fornire i prototipi della creazione artistica.
Rhodes
passa in rassegna, con competenza e citazioni visive e di poetica
particolarmente appropriate, alcune varianti del primitivismo. Ricordiamo in
particolare l’illusione utopica ed esotica di Gaugin, la ricerca di forme
pristine di Picasso, la simbolizzazione mitizzante dell’espressionismo,
l’attingere alle tradizioni contadine fondendole con l’avanguardia come nel
primo Malevich, il riferimento alle forme artistiche tribali di Arp e Moore, i
richiami di Miro alle opere degli eschimesi dell’Alaska.
[Roberto
Bertoni]