Se avessimo anche una fantastica, come una logica, sarebbe scoperta l’arte di inventare. (Novalis)
Pubblicato
per la prima volta nel 1977 per la Cooperativa Scrittori e in seguito nel 2004
per Monte Università Parma, Pinocchio con
gli stivali di Luigi Malerba (1927-2008) - straordinario scrittore italiano
che non ha bisogno di presentazioni - è un libro scritto per i piccoli, ma
destinato ai grandi, vale a dire una splendida storia che fa divertire i primi
e riflettere i secondi. Come Le galline
pensierose, sempre dello stesso autore, dato alle stampe nel 1980 e
ripubblicato nel 2014 da Quodlibet
Compagnia Extra, Pinocchio con gli stivali,
di cui esiste un sorprendente radiodramma con Paolo Poli e Marco Messeri
mandato in onda sul finire degli anni Settanta nel programma Radiodrammi in miniatura, è a tutti gli
effetti un libro “anfibio”, nel senso che andrebbe
letto dai ragazzi insieme ai genitori [1].
Che Malerba si sia dedicato alla letteratura per l’infanzia non deve
sorprendere nessuno, ha pubblicato decine e decine di racconti: da Mozziconi (1975) alle Storiette
tascabili (1984), senza
considerare le vicende di Millemosche (1969), scritte in coppia con il
grande amico e sceneggiatore Tonino Guerra per l’editore Valentino Bompiani. È
lo stesso autore, in un’intervista apparsa su “Tuttolibri” il 17 novembre 1984,
a spiegare il suo interesse per il mondo dei bambini:
Prima di tutto perché mi diverto, come sicuramente
si divertivano quelli che raccontavano favole nelle cucine e nelle stalle. […] Poi
perché mi piace mettere in imbarazzo i miei piccoli lettori, sconcertarli con
paradossi, fargli capire che il mondo è strano e pieno di inganni e addestrarli
fin da bambini a diffidare dei conformismi istituzionali e dei modelli
confezionati, a vedere il lato ridicolo delle cose [2].
In
Pinocchio con gli stivali, infatti,
il suo “bersaglio” è il romanzo di Carlo Collodi (1826-1890), pubblicato in
versione [3]
integrale a Firenze nel 1881, che ha per protagonista un burattino di legno, che
dopo mille avventure e peripezie, riesce a diventare un ragazzino vero. Lo
sperimentalismo malerbiano, leggibile talvolta solo in filigrana, che è comun
denominatore di tutte le sue opere, investe anche le fiabe tradizionali, che a detta sua, mettevano in scena il
principe e il castello, realtà molto lontane da noi, il lupo feroce che oggi è
animale protetto dal WWF, monete d’oro che ora sono di carta, carrozze a
cavalli che sono diventate automobili [4]. Convinto che ogni
epoca abbia le proprie favole, come ha i propri vestiti, le proprie case e la
propria organizzazione sociale, lo scrittore di Berceto riprende il discorso, dove
Collodi lo aveva interrotto:
e dopo che l’ebbe guardato un poco, disse dentro di
sé con grandissima compiacenza: “Com’ero buffo, quand’ero un burattino! E come
ora son contento di esser diventato un ragazzino perbene!” [5]
Malerba
si ricollega dunque al capitolo trentacinque:
Il
mare era tranquillo, la luna splendeva, il Pescecane dormiva e Pinocchio
nuotava. E nuotando pensava che non aveva nessuna voglia di entrare nel
capitolo seguente, cioè l'ultimo, perchè lì sarebbe diventato un ragazzino
perbene [6].
Una
sera il burattino si addormenta e sogna la fata turchina (il tema del “sogno” è
presente in tutta la narrativa di Luigi Malerba). Dopo aver ascoltato la lunga
tiritera di quest’ultima per mettere giudizio, Pinocchio decide di piantare in asso lei e il sogno stesso. Io mi trovo bene come burattino e non voglio
diventare un ragazzo nè perbene nè permale [7] pensava tra sé,
tant’è che il Pinocchio malerbiano non ci tiene proprio a diventare un bambino
vero. Come spiega il narratore: “per quanto scapestrato Pinocchio non se la
sentiva di fare una simile porcata”, dove si noti bene che la parola “porcata”
sta per “diventare un bambino educato e rispettoso”. Con straordinaria ironia e
abilità affabulatoria lo scrittore abbozza la figura di un personaggio già noto
al pubblico, Pinocchio appunto, che però ci appare ora sotto una luce diversa –
che cos’è la fantasia, infatti, se non
tutto ciò che prima non c’era e che si pensava fosse irrealizzabile [8]? – e originale
nella sua caratterizzazione: il burattino ha un epiteto sbilenco (le gambe che
gli fanno tric trac), lavorare non gli piace perché è faticoso, al contrario ama
recitare, cantare e ballare e il suo scopo è trovare una nuova favola in cui stare.
Succede in questo libro per ragazzi quel che allo scrittore di Berceto capita
spesso: egli riempie gli spazi bianchi della scrittura. Proprio per questo e
per altre ragioni il critico Walter Pedullà ha spiegato che la narrativa di
Malerba crea il vuoto attorno a sé, si gonfia e riduce, aumenta fino a scoppiare,
proprio come succede a quelle bolle di sapone, protagoniste di uno dei suoi
racconti più famosi, contenuti nella raccolta Le rose imperali (1974). Riempie gli spazi bianchi della narrativa
quando nel romanzo Itaca per sempre (1997)
entra nella testa di Penelope, la fedele sposa di Ulisse, ritenendo impensabile
che lei non sia stata capace di riconoscere subito il marito, o quando in un
racconto di Dopo il Pescecane (1979),
intitolato Cento scudi d’oro, immagina
l’intera notte di Lucia trascorsa nel castellaccio dell’Innominato, mostrandoci
una ragazza tutt’altro che ingenua e pudica, o infine quando in un libro,
pubblicato postumo, Il diario delle
delusioni, si chiede ad esempio che fine abbiano fatto i baracchesi del
film Miracolo a Milano dopo esser
saliti a bordo di una scopa diretti verso un
regno dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno. Naturalmente la Lucia
di Malerba non parla come quella di Manzoni, parimenti questo novello Pinocchio,
che con quello di Collodi condivide ben poco. Il divertimento, probabilmente,
sta tutto qui. Malerba lo tratta come un personaggio letterario, un burattino
vivace e scapestrato, che stanco del ruolo, a cui era stato relegato, se ne va
a spasso nelle favole altrui. Finisce in tre fiabe diverse, tutte dei fratelli
Grimm: Cappuccetto Rosso, Cenerentola e Il gatto con gli stivali. Nella prima sequenza, Pinocchio dice di
conoscere a memoria la fiaba – tant’è famosa – e vorrebbe occupare dapprima il
posto del lupo poi quello di Cappuccetto Rosso stesso.
Come
gli spiega il lupo, però, nelle favole ogni personaggio ha una sua funzione e di
conseguenza non è possibile cambiare né i personaggi né le loro azioni. Persino
quando Pinocchio gli promette di non alterare la favola, il lupo non cambia
partito, anzi si prende gioco dei suoi giuramenti, vista la fama del burattino.
In seguito Pinocchio riceve una seconda lezione da Cappuccetto Rosso, quando nel
tentativo di farle cambiare strada per far dispetto al lupo, la bambina gli chiarisce
di non poter fare altrimenti perché “nella favola sta scritto così”.
Cappuccetto
Rosso spiegò a Pinocchio che poteva arrivare con qualche minuto di ritardo,
questo sì, ma che per forza doveva incontrare il Lupo e per forza doveva
andare dalla Nonna perchè così stava scritto nella favola [9].
L’idea
del narratore come burattinaio e dei personaggi come burattini, che ricorda
vagamente Sei personaggi in cerca
d’autore di Luigi Pirandello, trova nel Pinocchio
con gli stivali la sua massima esemplificazione. Ecco che possiamo guardare
alla letteratura come ad un gigantesco e spassoso giocattolo (e quest’ultimo
assume tutt’altro che una valenza negativa!). Come scrive Walter Benjamin quando inventano storie, i bambini sono
registi che non si lasciano tarpare le ali dal senso e Malerba appartiene proprio
a quella schiera di scrittori che deve molto al prerazionale, la sua fantasia è
sfrenata, legata all’infanzia e al sogno; egli non si abbassa al livello del
bambino, fa in modo invece che sia il lettore a dubitare e a mettere in crisi
le proprie certezze. Una sua teoria si trova nel romanzo Il fuoco greco:
“I
fatti che succedono sono soltanto un pretesto per la scrittura perché non sono
veri” aveva risposto l’eunuco. “La verità sta nella mia penna e nelle parole
che io scrivo su questi fogli di pergamena. […] Su questi fogli voi pensate
quello che vi faccio pensare io e fate quello che io vi faccio fare” [10].
La
scrittura come mezzo per poter entrare in competizione con Dio, il tempo e la
fortuna, gli eterni punti fermi dell’uomo. Proprio perché lo scrittore è
padrone della sua storia, così come dei suoi personaggi e delle loro parole:
So
soltanto che finirà quando io deciderò di finirla e che si concluderà nel modo
che vorrò io. In questa storia sono io che comando. Io sono un umile eunuco, ma
quando scrivo ho più potere dell’imperatore vostro fratello. Io posso far
morire una persona con una sola parola [11].
Ritorniamo
in punta di penna al Pinocchio con gli
stivali: “Tu sei venuto qua a fare della confusione e niente altro. La
nostra favola va avanti benissimo da secoli così com'è!” dice il lupo a
Pinocchio, che decide così di proseguire il suo viaggio - non prima
naturalmente di essere giunto alla conclusione che il lupo è cattivo e presuntuoso e Cappuccetto Rosso una bambina troppo piccola e noiosa – e si
ritrova così nella fiaba di Cenerentola. Sceglie di parlare col principe,
confidando nella gentilezza dei nobili. Questi non può accontentare la
richiesta di Pinocchio perché:
-
Che cosa penserebbero dell'erede al trono i sudditi di suo padre se cedesse il posto
ad un burattino?
- Cenerentola sarebbe felice di sposare Pinocchio?
Si
comprende come la storia prenda la piega di una moderna pièce teatrale. Non contento, Pinocchio gli spiega che si tratta
soltanto di una favola, che suo padre non è un re vero, né i suoi sudditi
esistono fuori dalla pagina. Le parole di Pinocchio trovano giustificazione nel
fatto che egli è consapevole di essere un “personaggio”, vale a dire di
appartenere al regno della finzione, dove tutto è possibile, proprio perché come
scrisse Gianni Rodari la fiaba è il luogo
di tutte le ipotesi.
Scompaginare
la tradizione è il mestiere di Malerba, che al pari del già citato Gianni
Rodari, Tommaso Landolfi, Italo Calvino e Cesare Zavattini, rispolvera la
favola d’autore, adattandola alla realtà contingente, rivitalizzando gli
antichi loci comuni, reinventando, dove necessario, il linguaggio stesso. Anche
il principe propone a Pinocchio una parte minore, quella del vento, ma questi
come era da aspettarsi rifiuta. Decide di ripartire, la nuova destinazione è Il gatto con gli stivali, una delle
storie più amate dai bambini. Pinocchio giunge al mulino del figlio che aveva
ereditato solo un gatto, si intrufola nel discorso e tenta di dissuaderlo, ma
il giovane gli spiega ancora una volta quel che il burattino non ha ancora
capito: tutto è già deciso, egli sa già come andrà a finire ed è contento così.
Non pago della risposta, Pinocchio insiste, promettendogli di renderlo dieci
volte più ricco, qualora questi accettasse di mettere nel sacco il gatto al
posto del coniglio.
Dentro
al sacco il Gatto sbuffava, starnutiva, miagolava. Pinocchio si fece dare dal
figlio del mugnaio un paio di stivali, se li infilò ai piedi, si mise il sacco
in spalla e si avviò verso la reggia del Re con le sue gambe di legno che
facevano tric trac [12].
Ogni
cosa va come deve andare, fino a quando il gatto non comincia a graffiare tutto
e tutti. Con il sottile humor che lo contraddistingue Malerba scrive: “Ci
vollero degli anni per rimettere in ordine la favola del Gatto con gli stivali e ogni tanto ancora oggi vi succedono delle
confusioni”. Così Pinocchio viene ricondotto di peso al capitolo XXXVI del
libro da cui era fuggito. La storia ha, infatti, una struttura circolare. Non
la si può definire come un cammino di formazione, ascriverla al Bildungsroman, perché il protagonista
non ha mutato la propria condizione né cambiato parere. Leggiamo, infatti,
nelle battute conclusive: “Se tutti rispettassero la tradizione il mondo non
farebbe mai un passo avanti!”. A significare che la rottura dell’ordine è per
Malerba l’opportunità per costruire qualcosa di nuovo, una vera necessità.
Perché si può inventare un nuovo gioco, anche partendo da regole e funzioni
stabilite. Concludo con la stessa domanda che lo scrittore pone alla fine della
favola: “Quante cose brutte stanno dietro questa parola perbene?”. Pare dare ragione Malerba al povero Pinocchio che si
contentava di essere un semplice burattino dunque?
[1] LUIGI MALERBA, a cura di GIOVANNA
BONARDI, Parole al vento, Lecce,
Manni, 2008 p. 136.
[2] LUIGI MALERBA, Parole al vento, cit. p. 132.
[3] Spinto da Guido Biagi (1855-1925)
Carlo Collodi, che aveva diversi problemi economici a causa di alcuni debiti di
gioco, invia le prime due puntate de Le
avventure di Pinocchio al Giornale
per i bambini (7 luglio 1881) diretto da Ferdinando Martini, il quale,
visto l’ampio consenso di pubblico lo spinge a scrivere altre otto puntate. La
conclusione, pubblicata ad ottobre dello stesso anno, che Collodi ha pensato,
ossia Pinocchio morto impiccato da due imbroglioni, non soddisfa i lettori, che
con le loro lettere di protesta costringono l’autore a “resuscitare” il
protagonista. Nascerà così il libro che tutti conosciamo, il cui successo si
deve soprattutto al critico Benedetto Croce, che ne scrisse nel 1903.
[4] Ibibem.
[5] CARLO COLLODI, Le avventure di Pinocchio, Torino, Einaudi, 2014.
[6] LUIGI MALERBA, Pinocchio con gli stivali, Parma, Monte
Università, 2004.
[7] Ibidem.
[8] BRUNO MUNARI, Fantasia, Roma-Bari, Laterza, 2010.
[9] LUIGI MALERBA, Pinocchio con gli stivali, cit.
[10] LUIGI MALERBA, Il fuoco greco, Milano, Mondadori, 1990.
[11] Ibidem.
[12] Ibidem.