01/09/16

Zhao Liang, BEHEMOTH


Cina 2015


Ottimo dal punto di vista estetico, impegnato sul piano sociale, con riferimenti letterari tra Oriente e Occidente, il film di Zhao Liang, presentandosi sono in parte come documentario, piuttosto invece come saggio artistico su una problematica [1], fa della lentezza e della profondità stipiti di una poetica che impone attenzione allo spettatore, coinvolgendolo non solo nelle emozioni visive, ma anche e soprattutto nella riflessione.

Il titolo è un riferimento alla Bibbia, di cui sono citati i versetti. La struttura narrativa si svolge su due piani. L’elemento del viaggio si richiama esplicitamente, nei titoli di coda, alla Commedia dantesca accompagnata da cenni onirici e surreali. Il narratore in prima persona, con voce fuori campo, immagina un sogno in cui incontra, come Ovidio, una guida che ha uno specchio sulle spalle, allegoria in parte, si direbbe, della mimesi, e in parte richiamo magico-rituale alla morte e all’aldilà. L’illusione del sogno è data da una composizione dell’immagine in quadri paralleli, con i fori della celluloide di una volta in alcune inquadrature, quindi un gioco metalinguistico complesso. Il colore dominante della parte comparabile all’Inferno è il nero di una miniera di carbone oltre al rosso e al fuoco di un’acciaieria. Il Purgatorio è una dimensione ospedaliera che documenta le malattie derivate dal lavoro tra il carbone e si risolve nel decesso di uno dei lavoratori, quindi fino a che punto qui si tratti di Purgatorio è da determinarsi, e ovviamente un secondo Inferno. Il Paradiso, ancora più nettamente, è un falso Paradiso, che consiste nel raggiungimento di una delle molte città fantasma costruite in Cina in vista di un popolamento urbano che non si è realizzato se non in parte.

La parabola è una denuncia della devastazione della terra e delle acque della Mongolia in seguito alla costruzione di miniere, con sconvolgimento tanto del patrimonio naturale e delle attività pastorali tradizionali quanto del panorama umano. Soprattutto è una denuncia della condizione umana degradata cui la corsa al profitto costringe i lavoratori.

La telecamera inquadra ora volti tesi dalla fatica e anneriti dal tipo di lavoro svolto; le famiglie che raccolgono la polvere di carbone; una famiglia superstite di nomadi che allevano pecore tra ritagli di verde ai confini della miniera, le file interminabili di camion che danno un’idea dell’entità dello sfruttamento industriale, le offerte votive a Buddha di una pianta verdeggiante, incongrua tra la miseria delle casupole e la qualità crepuscolare del paesaggio industriale.

Non c’è riscatto. Non c’è futuro; e una delle dichiarazioni della voce fuori campo è proprio che più terribile di tutto è il desiderio privo di speranza per il futuro.

L’atmosfera da aldilà è in parte resa con riferimenti al sogno del vulcano nel film Sogni di Akira Kurosawa. Le riprese delle attività industriali sono paradossalmente di una bellezza notevole, con i fumi delle esplosioni, il rallentatore dei frammenti che si proiettano nell’aria, la discesa nel ventre della terra, l’incandescenza dell’acciaio uscito dalla fusione. Interessante, nella colonna sonora, il richiamo alla tradizione del canto gutturale mongolo.

In parte, lesito artistico del film si basa sul silenzio, ovvero lamancanza di dialogo. Come spiega il regista: "The language of silence contains a large power because the [...] characters are already carrying [...] powerful stories" [2]. 

Un film che mette alla prova la resistenza di chi lo guarda, proprio per questo risultando più attivamente e letterariamente valido.


NOTE

[1] "Its closer to art than film. It makes me feel more comfortable to call it that" (Zhao Liang's interview with Alex Suber, Slant, 16-3-2016). 
[2] Ibidem.

[Roberto Bertoni]