Volume appartenente all’Enciclopedia archeologica, a cura di J. Marcadé.
Ginevra, Nagel, 1975
Si percorre la
storia archeologica del Tibet, di cui vengono messi in rilievo in particolare alcuni
elementi.
Negli oggetti più antichi,
quali i thokdé, che significa “pietra
caduta dal cielo” e, al tempo dei ritrovamenti, ritenuti dai tibetani come
fausti, viene individuato il rapporto con “l’arte delle steppe dell’Asia
centrale” (p. 15).
Tra gli oggetti, alcuni
hanno un valore funzionale, ma esso spesso si combina con funzioni sacrali, o
inclina verso di esse esclusivamente, per esempio l’oggetto in cui sono
scolpiti tredici cerchi, dato che il 13 era sacro nella religione Bon.
Tombe di re, fortezze e
templi rappresentano aspetti dell’archeologia architettonica tibetana.
Un elemento architettonico
particolarmente rappresentativo è il chöten,
ovvero lo stupa tibetano, di cui
vengono individuati otto tipi e sono da ritenersi “al pari dei templi: ciò ci
conduce a parlare di quante specie possono essere i ten, ‘ricettacoli’ o ‘sostegni’; il ten dello spirito, thukten
(diciamo subito che la parola è approssimativa e ben lontano dal tradurre in
tutte le sue implicazioni il termine tibetano citta, essenzialità mentale, luce-vuoto, propria del Buddha);
ricettacolo, sostegno del corpo (sku rten),
cioè ogni rappresentazione figurata del Buddha o dei Bodhisattva o di grandi
lama; ed infine sungten, sostegno della
parola, tutto ciò che è scritto, la parola del Buddha, i libri” (p. 91).
Nel campo dell’arte
figurativa, la ricognizione archeologica rivela le origini in influssi dei
paesi limitrofi (Kashmir, Nepal, Cina, Asia centrale). “Ciò avveniva in due
diversi modi: o mediante la presenza di artisti dei suddetti paesi nel Tibet,
causata dalle situazioni storiche, che in quelli si verificavano ai danni del Buddhismo,
o come effetto dei più intensi pellegrinaggi di tibetani nei luoghi sacri dell’India”
(p. 113).
Questi influssi, che vanno
dalle modalità iconiche, da rispettarsi come venivano tramandate e fissata
dalla liturgia anche nei colori, ai materiali adoperati, continuano fino al
XIII/XIV secolo, periodo in cui il preesistente si sintetizza in una koiné tibetana dei diversi stili; e da
quel momento in poi si determina un’arte autoctona. Una maggiore libertà
espressiva si dà quando agli “schemi ieratici e soterici si accompagnò la
biografia: il racconto delle vicende del Buddha o dei Bodhisattva, la rappresentazione
dei paradisi, la narrazione delle Legenda
aurea dei santi che erano spesso gli abati dei monasteri più importanti.
Allora penetra nella pittura un soffio di vita e subentra un lieve contrasto
fra il testo-pittura e la pittura sciolta da quei legami, che può permettere
all’artista di dare libero sfogo alla propria fantasia” (p. 190).
[Roberto Bertoni]