Torino Einaudi, 2005
1. L’idea.
“L’idea”,
spiega Marco Belpoliti, è nata a da alcune conversazioni avute a margine dei
lavori del Festival della Letteratura di Mantova: “rifare insieme il viaggio
narrato da Primo Levi nella Tregua”,
rinarrarlo (La prova, p. 5). Levi era
stato liberato da Auschwitz dalle alla fine del gennaio 1945: l’impossibilità
però di attraversare la linea del fronte si tradusse in un lungo e estenuante
viaggio di rientro. Sopravvissuti, rifugiati e sbandati presi in consegna
dall’Armata Rossa vennero coinvolti in un lungo periplo di trasferimenti,
viaggi e marce, da ovest a est, da sud a nord, poi ancora verso sud, da est
verso ovest. Una sequenza odissiaca di stazioni ferroviarie, fermate, caserme
dismesse, campi di raccolta: Katowice, Cracovia, Leopoli, Žmerinka, Staryie
Doroghi, Iaši, Budapest, Vienna, Monaco, Verona, solo per citare alcune tappe.
Rifare
dunque il viaggio descritto nella Tregua,
narrandolo stavolta con un linguaggio diverso, filmico. Questo è il primo germe
della Strada di Levi, un documentario
allestito da Belpoliti e dal regista Davide Ferrario e presentato alla Festa
del Cinema di Roma nel 2006. Per realizzarlo, fra il 2004 e il 2005 i due
autori, pochi uomini della troupe e un’interprete hanno compiuto quattro
viaggi, in aereo, poi auto e pulmino, cercando tutte “le località citate, facendo
il giro indicata dalla cartina” acclusa alla Tregua, da Auschwitz sino al confine fra Italia e Austria e oltre,
attraverso quello che un tempo era il territorio dell’Unione Sovietica e oggi è
diviso fra Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria e Slovacchia. Il
viaggio è concluso da un incontro d’eccezione con Mario Rigoni Stern,
intervistato sulle montagne che circondano la sua casa sull’altopiano d’Asiago.
La strada di Levi non è tuttavia un trattamento cinematografico della Tregua. Ad essere catturata dalla
cinepresa è stata la realtà degli stessi luoghi toccati dal viaggio a
sessant’anni esatti dagli eventi narrati dallo scrittore: un viaggio nei luoghi
raccontati da Levi, colti con lo sguardo del presente. Come “lui allora”,
osserva Ferrario:
“Noi
possiamo guardare a quanto è accaduto in Europa dalla caduta del comunismo e
osservare come persone e culture stiano entrando in un nuovo secolo di
incertezza. Ho compreso che il film avrebbe potuto essere su Levi e allo stesso
tempo su di noi – ed è stato questo fatto a convincermi davvero”.[1][1]
Questo
racconto ne nasconde però un altro. A margine delle riprese dirette da
Ferrario, Belpoliti ha infatti redatto una serie di annotazioni. Resoconti
delle cose e delle persone incontrate, delle “andate e ritorni” che hanno
scandito gli spostamenti e i sopralluoghi per il film, apparsi sporadicamente
sulle pagine de “La Stampa”. Una volta raccolte, le annotazioni hanno formato
un libro, che è anche uno dei primi diari di viaggio dedicati all’Europa
dell’est all’indomani del crollo dei regimi socialisti.
2. Molte
occasioni ma un solo centro, Cernobyl
Siamo
partiti pensando di andare incontro al futuro e al tempo stesso di rivedere il
passato con gli occhi dell’oggi. Noi non sappiamo cosa ci attende, tuttavia,
talvolta si può intravedere il futuro attraverso il passato, come ha insegnato
Walter Benjamin: il futuro del passato (La
prova, p. 7).
Musa di
queste annotazioni è stata “l’occasione”, come capita in ogni viaggio. Quella
di Belpoliti è però una occasionalità non casuale. Lo stesso autore, a lavoro
concluso, conferma: “mi sono accorto che l’andamento complessivo di questo
libro è a spirale”, crea “un piccolo vortice che inanella le cose e le avvolge
piegandole verso il medesimo punto” (La
prova, p. 8). Ma se questo libro “inanella le cose e le avvolge piegandole
verso il medesimo punto”, quale è la direzione di fuga delle sue pagine, il
centro attorno a cui tutto orbita? E se c’è una singolarità, un punto di
criticità negativa, esistono tendenze, scansioni, moduli che imprimono alla
geografia che lo circonda una decifrabilità, la possibilità di trarne
direzioni, angolature, differenze, in una parola, di mapparla?
Il centro
in questo viaggio esiste e ha un nome ben definito, quello della ex-cittadina
di Cernobyl. È quello il centro di tutto il viaggio, il punto in cui tutti i
luoghi e i paesaggi convergono e crollano assieme. Eccolo il centro della nuova
Europa: il “sarcofago” che avvolge la vecchia centrale, dove la “reazione degli
elementi non è ancora terminata” (La
prova, p. 21). Perché Cernobyl,
che cosa ha spinto Belpoliti ad individuare nelle macerie di un ex-reattore
nucleare il centro di una Europa già attraversata a suo tempo da Levi?
Per
comprendere le ragioni di questa scelta può essere utile compiere alcune
sovrapposizioni di lettura. Il 7 ottobre del 2004 il primo viaggio in cui sono
impegnato Belpoliti, Ferrario e i componenti della troupe tocca Pripiat’, una
cittadina nel nord-est dell’Ucraina, poco lontano da Žmerinka, uno dei luoghi
di transito ricordati da Lei nella Tregua.
Ad accoglierli è però una città “vuota, sventrata, a tratti spettrale”.
Pripiat’ è stata il primo abitato ad essere investito dal fall-out radioattivo
la notte del 25 aprile 1986, quando il nocciolo del quarto reattore della
centrale esplose. Costeggiando l’immensa carcassa della centrale Belpoliti avrà
modo di annotare:
“Dopo
qualche ora che siamo lì, provo il medesimo senso di sconforto che mi ha
assalito ad Auschwitz, lo stesso desiderio di andarmene, di allontanarmi.
Restiamo in piedi, zitti, per lunghi minuti a fissare attoniti l’Arca del Male.
L’invisibilità delle radiazioni mi sconcerta” (La prova, p. 22).
Queste
sensazioni si manifesteranno con ancora più forza l’anno successivo, quando il
25 giugno Belpoliti e Ferrario sono nuovamente a Cernobyl per la proseguire
nella preparazione del documentario. Anche in questa occasione Belpoliti
scrive:
“So per
esperienza, che dopo la visita a Pripiat’ subentra una sottile depressione, una
malia perniciosa che ti assale all’improvviso e si mescola alla stanchezza del
viaggio e degli spostamenti. C’è troppa morte sospesa nell’aria della città
abbandonata vicino a Cernobyl […]. Capisco bene, ora, osa significa
l’espressione il “il veleno di Auschwitz” usata da Levi: la malattia si spande
anche a distanza di tempo da questi luoghi maledetti” (La prova, p. 90).
L’ansia
evocata da Belpoliti si accosta volutamente, per sovrapposizione, ad alcune
delle affermazioni più sofferte e inquietanti rievocate da Levi negli istanti
della propria liberazione, nel gennaio 1945, a proposito della “natura
insanabile dell’offesa” generata dal campo di sterminio, “che dilaga come un
contagio”: “Essa è un’inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei
sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori,
si perpetua come odio nei superstiti e pullula in mille modi, contro la stessa
volontà di tutti” (La tregua, pp.
3-4).
Cernobyl
dunque come fonte di un “contagio”, di una “malattia perniciosa” che si spande,
“risale” o “assale” la vita e lo spazio circostante. Si tratta d’una
sovrapposizione richiamata più volte. Belpoliti lo dice esplicitamente: “il
campo di sterminio e la centrale nucleare deflagrata sono due dei maggiori
emblemi negativi del Novecento” (La prova,
p. 22).
3. Dalla
mappa al cronotopo
I livelli
di connessione - fra Auschwitz e Cernobyl, fra La prova e La tregua -
sono ovviamente molteplici, come in ogni rapporto di filiazione. In entrambi
questi testi tuttavia, sia Levi che Belpoliti sono attento ad imprimere sullo
spazio un significato ulteriore, trasformando la geografia in un paesaggio
complesso, in un cronotopo nel quale traspaiono le tracce di un’epoca e la sua
essenza.
Il
cammino percorso dalla Tregua segna
un itinerario di risalita. Allo spazio viene impressa una direzionalità, ma
anche esso è ricollegato ad una cornice temporale ben più profonda: “‘Ma la
guerra è finita’, obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di
tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi” (La tregua, p. 44).
In questo
spazio sospeso, di temporanea “tregua”, i sopravvissuti si muovono lungo una
direzione orizzontale, attraversando frontiere e posti di controllo disseminati
dalla guerra. Allo stesso momento però il loro è anche un viaggio di risalita,
una fuga dall’abisso, come rivelato alla fine del soggiorno forzato a Staryie
Doroghi, momento di svolta dell’intero percorso della Tregua:
“Dopo i
trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in
eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l’ozio e la
nostalgia acerba di Staryje Doroghi, eravamo in risalita, dunque, in viaggio
all’insù, in cammino verso casa. Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva
riacquistato vigore e valore” (La tregua,
p. 191).
La
geografia dell’Europa uscita dalla guerra è geografia di uno spazio collassato.
Al suo centro il campo di sterminio, un punto di rottura insanabile, verso cui
tutto tende irrimediabilmente a franare e dal quale tutti cercano con forza di
fuggire. Significativamente la mappatura rilevata da Belpoliti nel suo viaggio
ha una configurazione simile: anche in essa, al centro, sta un punto di
collasso, un “crollo” alla cui presenza vanno riallacciati e riconsiderati gli
spazi circostanti. La riscrittura non è dunque solo nei luoghi, nelle tracce
ripercorse, ma nel discorso mentale che li unisce.
4. Interpolazioni:
Calvino e Primo Levi. Città visibili e città invisibili
La prova è
un libro segnato dalla presenza di Levi: “una volta rilette le pagine”, scrive
Belpoliti, “mi sono accorto che la figura di Primo Levi prendeva sempre più
corpo, diventava sempre più reale” (La
prova, p. 8). Lo stesso titolo del volume allude alle ultime pagine della Tregua, quando Levi scrive: “Sapevamo
che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una
prova e la anticipavamo con timore” (La
tregua, p. 217).
Eppure
quella di Levi non l’unica presenza ad essere evocata. La prova è un libro strutturato a partire da descrizioni di città.
Il punto di partenza è Cracovia, il 1° ottobre 2004; seguono Auschwitz,
Leopoli, Žmerinka, Pripiat’, Kiev, Maglyek Pod’olski , Brasov, Uijpest – e poi
nuovamente Cracovia da cui si diparte il secondo viaggio, nel giugno 2005, che
tocca Nova Huta, Katowice, e così via. Il libro si costruisce come sequenza di
città – di città visibili. È quindi impossibile, leggendolo, eludere un’altra
mappatura di città stilata a suo tempo dalle Città invisibili di Calvino.
Il
terreno su cui si muove Belpoliti non è più quello di uno schema geometrico,
astratto, del “modello di città” da cui dedurre “tutte le città possibili” (Le città invisibili, p. 67), ma è un
percorso terreno, scandito dalle tappe del viaggio. Eppure l’imprinting è
fortemente percepibile, La prova
addita anche una implicita riscrittura delle Città invisibili, in una prospettiva rovesciata, che prende le
mosse proprio dalla ricognizione delle città visibili toccate ripercorrendo il
viaggio Levi. Lo stesso Belpoliti ha del resto dedicato grande attenzione al
lavoro di Calvino, stendendo un paio di anni prima di avviare il progetto della
Prova un testo intitolato non
casualmente Città visibili e città
invisibili.[2][2]
Se esiste
dunque un rapporto esplicito con l’opera di Primo Levi, di cui ancora vanno
indagate appieno le forme e le ragioni, esiste per La prova anche un ipotesto implicito, che pure ha influito sulla
costruzione del libro, sulla mappatura proposta in esso da Belpoliti. Non è
allora un caso che uno dei temi fondanti della Prova sia dato dalla fenomenologia delle rovine:
“Appena
vediamo una rovina, scendiamo dall’auto per riprenderla. Davide punta la sua
telecamera di preferenza sulle fabbriche abbandonate, sui monumenti sovietici,
sugli scali in disfacimento. Ce ne sono dovunque sulla nostra strada. Subisco
il medesimo fascino per ciò che cade a pezzi. Da dove nasce questa mia passione
per le rovine? […] Cernobyl e Pripiat’, che abbiamo visto l’altro ieri, sono la
rovina delle rovine” (La prova, p.
24).
Tale tema
mostra infatti una diversa ascendenza, di cui vanno ancora indagate le modalità
e gli effetti sulla scrittura di Belpoliti, per cui la “prova”, in fondo,
allude anche a quel
“momento
disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di
tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è
troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il
trionfo sugli avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina” (Le città invisibili, p. 5).
[Tommaso
Pepe]