07/03/14

Marco Belpoliti, LA PROVA

Torino Einaudi, 2005


1.      L’idea.

“L’idea”, spiega Marco Belpoliti, è nata a da alcune conversazioni avute a margine dei lavori del Festival della Letteratura di Mantova: “rifare insieme il viaggio narrato da Primo Levi nella Tregua”, rinarrarlo (La prova, p. 5). Levi era stato liberato da Auschwitz dalle alla fine del gennaio 1945: l’impossibilità però di attraversare la linea del fronte si tradusse in un lungo e estenuante viaggio di rientro. Sopravvissuti, rifugiati e sbandati presi in consegna dall’Armata Rossa vennero coinvolti in un lungo periplo di trasferimenti, viaggi e marce, da ovest a est, da sud a nord, poi ancora verso sud, da est verso ovest. Una sequenza odissiaca di stazioni ferroviarie, fermate, caserme dismesse, campi di raccolta: Katowice, Cracovia, Leopoli, Žmerinka, Staryie Doroghi, Iaši, Budapest, Vienna, Monaco, Verona, solo per citare alcune tappe.

Rifare dunque il viaggio descritto nella Tregua, narrandolo stavolta con un linguaggio diverso, filmico. Questo è il primo germe della Strada di Levi, un documentario allestito da Belpoliti e dal regista Davide Ferrario e presentato alla Festa del Cinema di Roma nel 2006. Per realizzarlo, fra il 2004 e il 2005 i due autori, pochi uomini della troupe e un’interprete hanno compiuto quattro viaggi, in aereo, poi auto e pulmino, cercando tutte “le località citate, facendo il giro indicata dalla cartina” acclusa alla Tregua, da Auschwitz sino al confine fra Italia e Austria e oltre, attraverso quello che un tempo era il territorio dell’Unione Sovietica e oggi è diviso fra Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Ungheria e Slovacchia. Il viaggio è concluso da un incontro d’eccezione con Mario Rigoni Stern, intervistato sulle montagne che circondano la sua casa sull’altopiano d’Asiago.

La strada di Levi non è tuttavia un trattamento cinematografico della Tregua. Ad essere catturata dalla cinepresa è stata la realtà degli stessi luoghi toccati dal viaggio a sessant’anni esatti dagli eventi narrati dallo scrittore: un viaggio nei luoghi raccontati da Levi, colti con lo sguardo del presente. Come “lui allora”, osserva Ferrario:

“Noi possiamo guardare a quanto è accaduto in Europa dalla caduta del comunismo e osservare come persone e culture stiano entrando in un nuovo secolo di incertezza. Ho compreso che il film avrebbe potuto essere su Levi e allo stesso tempo su di noi – ed è stato questo fatto a convincermi davvero”.[1][1]

Questo racconto ne nasconde però un altro. A margine delle riprese dirette da Ferrario, Belpoliti ha infatti redatto una serie di annotazioni. Resoconti delle cose e delle persone incontrate, delle “andate e ritorni” che hanno scandito gli spostamenti e i sopralluoghi per il film, apparsi sporadicamente sulle pagine de “La Stampa”. Una volta raccolte, le annotazioni hanno formato un libro, che è anche uno dei primi diari di viaggio dedicati all’Europa dell’est all’indomani del crollo dei regimi socialisti.


2.      Molte occasioni ma un solo centro, Cernobyl

Siamo partiti pensando di andare incontro al futuro e al tempo stesso di rivedere il passato con gli occhi dell’oggi. Noi non sappiamo cosa ci attende, tuttavia, talvolta si può intravedere il futuro attraverso il passato, come ha insegnato Walter Benjamin: il futuro del passato (La prova, p. 7).

Musa di queste annotazioni è stata “l’occasione”, come capita in ogni viaggio. Quella di Belpoliti è però una occasionalità non casuale. Lo stesso autore, a lavoro concluso, conferma: “mi sono accorto che l’andamento complessivo di questo libro è a spirale”, crea “un piccolo vortice che inanella le cose e le avvolge piegandole verso il medesimo punto” (La prova, p. 8). Ma se questo libro “inanella le cose e le avvolge piegandole verso il medesimo punto”, quale è la direzione di fuga delle sue pagine, il centro attorno a cui tutto orbita? E se c’è una singolarità, un punto di criticità negativa, esistono tendenze, scansioni, moduli che imprimono alla geografia che lo circonda una decifrabilità, la possibilità di trarne direzioni, angolature, differenze, in una parola, di mapparla?

Il centro in questo viaggio esiste e ha un nome ben definito, quello della ex-cittadina di Cernobyl. È quello il centro di tutto il viaggio, il punto in cui tutti i luoghi e i paesaggi convergono e crollano assieme. Eccolo il centro della nuova Europa: il “sarcofago” che avvolge la vecchia centrale, dove la “reazione degli elementi non è ancora terminata” (La prova, p. 21). Perché Cernobyl, che cosa ha spinto Belpoliti ad individuare nelle macerie di un ex-reattore nucleare il centro di una Europa già attraversata a suo tempo da Levi?
Per comprendere le ragioni di questa scelta può essere utile compiere alcune sovrapposizioni di lettura. Il 7 ottobre del 2004 il primo viaggio in cui sono impegnato Belpoliti, Ferrario e i componenti della troupe tocca Pripiat’, una cittadina nel nord-est dell’Ucraina, poco lontano da Žmerinka, uno dei luoghi di transito ricordati da Lei nella Tregua. Ad accoglierli è però una città “vuota, sventrata, a tratti spettrale”. Pripiat’ è stata il primo abitato ad essere investito dal fall-out radioattivo la notte del 25 aprile 1986, quando il nocciolo del quarto reattore della centrale esplose. Costeggiando l’immensa carcassa della centrale Belpoliti avrà modo di annotare:

“Dopo qualche ora che siamo lì, provo il medesimo senso di sconforto che mi ha assalito ad Auschwitz, lo stesso desiderio di andarmene, di allontanarmi. Restiamo in piedi, zitti, per lunghi minuti a fissare attoniti l’Arca del Male. L’invisibilità delle radiazioni mi sconcerta” (La prova, p. 22).

Queste sensazioni si manifesteranno con ancora più forza l’anno successivo, quando il 25 giugno Belpoliti e Ferrario sono nuovamente a Cernobyl per la proseguire nella preparazione del documentario. Anche in questa occasione Belpoliti scrive:

“So per esperienza, che dopo la visita a Pripiat’ subentra una sottile depressione, una malia perniciosa che ti assale all’improvviso e si mescola alla stanchezza del viaggio e degli spostamenti. C’è troppa morte sospesa nell’aria della città abbandonata vicino a Cernobyl […]. Capisco bene, ora, osa significa l’espressione il “il veleno di Auschwitz” usata da Levi: la malattia si spande anche a distanza di tempo da questi luoghi maledetti” (La prova, p. 90).

L’ansia evocata da Belpoliti si accosta volutamente, per sovrapposizione, ad alcune delle affermazioni più sofferte e inquietanti rievocate da Levi negli istanti della propria liberazione, nel gennaio 1945, a proposito della “natura insanabile dell’offesa” generata dal campo di sterminio, “che dilaga come un contagio”: “Essa è un’inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti” (La tregua, pp. 3-4).

Cernobyl dunque come fonte di un “contagio”, di una “malattia perniciosa” che si spande, “risale” o “assale” la vita e lo spazio circostante. Si tratta d’una sovrapposizione richiamata più volte. Belpoliti lo dice esplicitamente: “il campo di sterminio e la centrale nucleare deflagrata sono due dei maggiori emblemi negativi del Novecento” (La prova, p. 22).


3.      Dalla mappa al cronotopo

I livelli di connessione - fra Auschwitz e Cernobyl, fra La prova e La tregua - sono ovviamente molteplici, come in ogni rapporto di filiazione. In entrambi questi testi tuttavia, sia Levi che Belpoliti sono attento ad imprimere sullo spazio un significato ulteriore, trasformando la geografia in un paesaggio complesso, in un cronotopo nel quale traspaiono le tracce di un’epoca e la sua essenza.

Il cammino percorso dalla Tregua segna un itinerario di risalita. Allo spazio viene impressa una direzionalità, ma anche esso è ricollegato ad una cornice temporale ben più profonda: “‘Ma la guerra è finita’, obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto più universale di quanto si osi pensare oggi” (La tregua, p. 44).

In questo spazio sospeso, di temporanea “tregua”, i sopravvissuti si muovono lungo una direzione orizzontale, attraversando frontiere e posti di controllo disseminati dalla guerra. Allo stesso momento però il loro è anche un viaggio di risalita, una fuga dall’abisso, come rivelato alla fine del soggiorno forzato a Staryie Doroghi, momento di svolta dell’intero percorso della Tregua:

“Dopo i trasferimenti insensati, per cui ci eravamo sentiti dannati a gravitare in eterno attraverso gli spazi russi, come inutili astri spenti; dopo l’ozio e la nostalgia acerba di Staryje Doroghi, eravamo in risalita, dunque, in viaggio all’insù, in cammino verso casa. Il tempo, dopo due anni di paralisi, aveva riacquistato vigore e valore” (La tregua, p. 191).

La geografia dell’Europa uscita dalla guerra è geografia di uno spazio collassato. Al suo centro il campo di sterminio, un punto di rottura insanabile, verso cui tutto tende irrimediabilmente a franare e dal quale tutti cercano con forza di fuggire. Significativamente la mappatura rilevata da Belpoliti nel suo viaggio ha una configurazione simile: anche in essa, al centro, sta un punto di collasso, un “crollo” alla cui presenza vanno riallacciati e riconsiderati gli spazi circostanti. La riscrittura non è dunque solo nei luoghi, nelle tracce ripercorse, ma nel discorso mentale che li unisce.


4.      Interpolazioni: Calvino e Primo Levi. Città visibili e città invisibili

La prova è un libro segnato dalla presenza di Levi: “una volta rilette le pagine”, scrive Belpoliti, “mi sono accorto che la figura di Primo Levi prendeva sempre più corpo, diventava sempre più reale” (La prova, p. 8). Lo stesso titolo del volume allude alle ultime pagine della Tregua, quando Levi scrive: “Sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova e la anticipavamo con timore” (La tregua, p. 217).

Eppure quella di Levi non l’unica presenza ad essere evocata. La prova è un libro strutturato a partire da descrizioni di città. Il punto di partenza è Cracovia, il 1° ottobre 2004; seguono Auschwitz, Leopoli, Žmerinka, Pripiat’, Kiev, Maglyek Pod’olski , Brasov, Uijpest – e poi nuovamente Cracovia da cui si diparte il secondo viaggio, nel giugno 2005, che tocca Nova Huta, Katowice, e così via. Il libro si costruisce come sequenza di città – di città visibili. È quindi impossibile, leggendolo, eludere un’altra mappatura di città stilata a suo tempo dalle Città invisibili di Calvino.

Il terreno su cui si muove Belpoliti non è più quello di uno schema geometrico, astratto, del “modello di città” da cui dedurre “tutte le città possibili” (Le città invisibili, p. 67), ma è un percorso terreno, scandito dalle tappe del viaggio. Eppure l’imprinting è fortemente percepibile, La prova addita anche una implicita riscrittura delle Città invisibili, in una prospettiva rovesciata, che prende le mosse proprio dalla ricognizione delle città visibili toccate ripercorrendo il viaggio Levi. Lo stesso Belpoliti ha del resto dedicato grande attenzione al lavoro di Calvino, stendendo un paio di anni prima di avviare il progetto della Prova un testo intitolato non casualmente Città visibili e città invisibili.[2][2]

Se esiste dunque un rapporto esplicito con l’opera di Primo Levi, di cui ancora vanno indagate appieno le forme e le ragioni, esiste per La prova anche un ipotesto implicito, che pure ha influito sulla costruzione del libro, sulla mappatura proposta in esso da Belpoliti. Non è allora un caso che uno dei temi fondanti della Prova sia dato dalla fenomenologia delle rovine:

“Appena vediamo una rovina, scendiamo dall’auto per riprenderla. Davide punta la sua telecamera di preferenza sulle fabbriche abbandonate, sui monumenti sovietici, sugli scali in disfacimento. Ce ne sono dovunque sulla nostra strada. Subisco il medesimo fascino per ciò che cade a pezzi. Da dove nasce questa mia passione per le rovine? […] Cernobyl e Pripiat’, che abbiamo visto l’altro ieri, sono la rovina delle rovine” (La prova, p. 24).

Tale tema mostra infatti una diversa ascendenza, di cui vanno ancora indagate le modalità e gli effetti sulla scrittura di Belpoliti, per cui la “prova”, in fondo, allude anche a quel

“momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sugli avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina” (Le città invisibili, p. 5).


[Tommaso Pepe]




[1] D. Ferrario, Intervista a Davide Ferrario. Regista de La strada di Levi, “Hideout. Cultura dell’immagine e della parola”, 5-5-2007.
[2] “Croniques Italiennes”, 75-76, 2005, pp. 45-59.